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I cerchi concentrici di pensieri pandemici

Se la distanza è un problema, qualche volta diventa soluzione, opportunità di elaborazione, officina di mille talenti sopiti e progetti sbucati fuori da cassetti troppo pieni di sogni stipati, che in ordine si riorganizzano tra loro, si predispongono in graduatoria di priorità e sbucano fuori uno alla volta, a seconda del momento, della stagione, della dimensione o, solo, dell’empatia.

Il Castello Aragonese è per Ischia e gli ischitani il simbolo di un’appartenenza alla bellezza, prima ancora che alla terra natia o di adozione, l’emblema dell’ischitanità, prima ancora dei nobili natali le cui origini si intessono, radicandosi di generazione in generazione, nell’isola più bella del mondo da un punto di vista paesaggistico.

Ebbene, per uno scherzo della natura che da un anno a questa parte ci mette al cospetto della caducità delle cose e ci invita a non rimanere identificati con le cose inutili o di dubbia utilità per la crescita personale, ecco che un bel giorno, di questi giorni, il Castello scompare. Puff, ieri c’era e oggi non c’è più. Come un affronto, un colpo basso, una mossa che davvero non ti aspetti, suvvia, il Castello è lì da secoli e ogni volta, per raccontarci una scusa che ci portasse al pontile, ci diciamo “andiamo a controllare se c’è ancora il Castello” e quello c’era, sempre, d’estate, d’inverno, pure con l’alta marea, non si è mai mosso questo antico e monello maniero. Un giorno di nebbia il Castello sparì, dalla vista, dagli scatti, dai video, dall’orizzonte. Ma proprio sparì, non che fu avvolto da foschia che non consentiva di distinguerne il profilo, i colori, l’intensità, no, no, sparì proprio…. che surreale senso di sgomento scoprire o, per uno strano scherzo del destino, riscoprire che una cosa che mai avresti pensato potesse venire a mancare, un bel giorno sparisce come se non ci fosse mai stata, come se non fosse mai esistita, come se non avesse riempito le memorie dei nostri smartphone perché da qualunque angolazione lo prendevi era sempre bellissimo e fosse pure sempre la stessa prospettiva, cambiano le luci, le ombre, ma anche un po’ gli stati d’animo e gli scatti erano tutti unici, tutti e  “millemila”. Eppure eravamo abituati, e non da molto, a fare i conti con le assenze improvvise, con il non dare nulla per scontato, con la distanza così forzata da non vedere l’orizzonte di una rinascita per parecchi mesi. Al Castello e alla sua presenza non ci si abitua mai, si resta sempre stupiti. Al Castello e alla sua assenza non ci si era mai pensato. Ed eccola qui, maestosa ed imponente, l’assenza del Castello Aragonese, come una vecchia foto che ritrae il pontile aragonese con sotto la scritta “Ischia, veduta senza Castello”.

La mente torna ad uno scatto di qualche giorno prima della funesta nebbia, quando tra la terra e il cielo, si dipingeva il mare con le sue sfumature di verde che preparavano il terreno al vecchio ma brillante maniero e questo era illuminato da qualche puntino di stella non cadente. Com’era più rassicurante quella immagine, che infondeva serenità come un miorilassante per infusione venosa al termine di una giornata intensa, con le sue brutture o anche le sue bellezze intense. L’acqua che cambiava di colore a mano a mano che accompagnava lo sguardo al Castello formava cerchi concentrici che si allargavano, suadenti, congiungendosi con altri cerchi di altra natura e di varia misura fino ad arrivare alla diga delle fondamenta dell’istmo dove si fermavano e forse, tornavano indietro. Cerchi di pensieri, credenze sin qui ben allevate e tirate su con una certa caratura, resistenti ai paradigmi ed ai condizionamenti, alle sovrastrutture ed altre amenità che sfiorano in una sera di primavera anticipata, le riflessioni suadenti di un epilogo di giornata.

Chissà quante volte abbiamo pensato che era ora di uscire dal cerchio del nostro egoismo, come fosse una gabbia dorata e ben arredata, da non riconoscerla come tale e anzi autorizzarne la crescita; chissà quante ancora, in direzione opposta e contraria, abbiamo ritenuto che era ora di spezzare l’anello che ci separava dal tutto esistente al di fuori della zona confort del momento, creando tuttavia altri cerchi concentrici, più estesi ma non per questo meno divisori dal resto del mondo. Cerchi dai quali di tanto in tanto ci affacciamo per vedere se il cerchio microcosmo del vicino abbia l’erba più verde, salvo poi rientrare del tutto, raccontandoci che il vicino usa gli anabolizzanti per innaffiare il giardino. Cerchi le cui separazioni sono così sottili che qualche volta ci raccontiamo che non esistono mentre invece la sottigliezza è artatamente costituita da un vetro trasparente, molto ben pulito, da starci attenti a non sbatterci il muso, tanto che sembra che non ci sia, ma sempre un vetro.

E quindi osserviamo, noi abili e provetti osservatori, spacciando l’osservazione per verità assoluta, autoregalandoci l’illusione di essere nel giusto solo per il fatto di mettere consapevolezza in quello che osserviamo, cadendo nel tranello per l’ennesima volta di una nuova separazione, di una nuova dicotomia, talmente perniciosa da non riuscire a percepire nemmeno più il ricordo o la memoria del punto di inizio, quando non c’era distinzione né separazione, né buio, né luce e tutto era perfetto.

Forse è per questo che il Castello è sparito, per spezzare l’incantesimo a cui ci siamo abituati, quello della consuetudine ad abituarci anche alla disabitudine.

I vetri mentali (ormai ci siamo evoluti e il covid ci ha insegnato ad abbattere i muri per edificare vetri antiproiettili mentali) diventano delimitazioni del mondo, intendendo, per mondo, tutto quello che esiste, in termini fisici ed in termini energetici, razionali e irrazionali. Al di là del vetro, o al di là del muro – come cantavano i Pink Floid – brulica tutto ciò che non coincide con quanto stiamo osservando all’interno della zona confort.

Ci chiediamo ancora perché il Castello un bel giorno è sparito alla nostra vista?

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