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L’Ecce Homo di Madrid: ecco perché è davvero Caravaggio

Lo storico dell’arte italiano che per primo ha attribuito il nuovo dipinto al Merisi con una perizia depositata alla casa d’aste racconta la scoperta

Non poteva che riemergere a Madrid il dipinto che il Bellori descrisse parlando di Caravaggio: «Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna». (Giovanni Pietro Bellori, Vita de’ pittori…, 1672). In tempo di pandemia poteva rischiare di passare inosservato o di venire aggiudicato a per poco più dei 1.500 euro dai quali partiva l’asta Ansorena, prevista per l’8 aprile, ma la casa madrilena ha ritirato il lotto, in accordo coi proprietari, per un eccesso di interesse. Sembra un controsenso, ma non lo è e di certo diversi, tra antiquari e studiosi, si erano accorti che non si trattava di un seguace di Ribera, come veniva ipotizzato dal catalogo. Personalmente avevo scelto di non “turbare l’asta”, ma dal giorno del ritiro, il 5 aprile, l’Ansorena ha in mano un saggio che ho iniziato a scrivere il 24 marzo scorso, del quale qui anticipo un estratto (il testo integrale uscirà sul prossimo numero della rivista digitale “About art on line”).  Nel 1987 Rossella Barbiellini rinvenne nell’archivio Massimi di Roma le seguenti e distinte note: «Io Michel Angelo Merisi da Caravaggio mi obligo a pingere all Ill.mo Massimo Massimi per essere stato pagato un quadro di valore e grandezza come è quello ch’io gli feci già della Incoronazione di Crixto per il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa, questo dì 25 Giunio 1605». «A dì marzo 1607 io Lodovico di Giambattista Cigoli o ricevuto da Nobili sig.r Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagno di uno altra mano del sig.r Michelagniolo Caravaggio… in fede mia o scritto in Roma. Io Lodovico Cigoli». Era invece già famoso da tempo il passo di Giambattista Cardi nella biografia di suo zio Ludovico Cigoli scritta nel 1628: «Volendo Monsignor Massimi un Ecce Homo che gli soddisfacesse, ne commesse uno al Passignano, uno al Caravaggio et uno al Cigoli senza che l’uno sapesse dell’altro».

Questa sequenza di citazioni è sufficiente a dispiegare le vicende che portarono alla genesi dell’inedito dipinto (olio su tela, cm. 111 x 86) che, ritirato dall’asta Ansorena, qui attribuisco a Michelangelo Merisi. Ritengo si tratti del quadro commissionato da Massimo Massimi nel 1605 che il pittore si era impegnato a eseguire in soli trentasei giorni, se tenne fede alla promessa, eppure sono convinto che il dipinto madrileno verrà riconosciuto come uno dei risultati più intensi dell’artista. Chi si interessa di questa materia è al corrente che la casella dell’Ecce Homo Massimi risulta già occupata da una tela ora a Palazzo Bianco di Genova. Un bel dipinto, ma dai caratteri aspri che si ritrovano nei seguaci del Merisi operanti in Sicilia e nel messinese sono infatti conservate alcune copie. Discusso e rigettato da vari specialisti di Caravaggio, l’Ecce Homo di Genova anche a mio parere non è quello ricordato nella raccolta Massimi e poi “spedito in Ispagna” come attesta il Bellori.

Caravaggio di Genova

Una terna cristologica transitò dal palazzo Massimi di Roma se, come abbiamo visto, Giambattista Cardi Cigoli riferisce di una gara indetta sul tema dell’Ecce Homo, alla quale avrebbero partecipato il Caravaggio, il Passignano e appunto il Cigoli. Secondo il nipote biografo vinse il quadro dello zio mentre gli altri due vennero venduti. Il ritrovamento delle note di pagamento smentisce nelle date la gara e questa vanteria familiare del Cardi, essendo evidente una differenza di due anni tra l’esecuzione del dipinto del Merisi (1605) e la caparra ricevuta dal Cigoli (1607).  Nel commentare l’avvincente storia non si è finora detto che nel mezzo di quei due anni avvenne il ben noto delitto di Ranuccio Tomassoni che da un momento all’altro trasformò il pittore di maggior grido in un assassino. Difficile dire se il Massimi si sia liberato del dipinto di Caravaggio per non tenere in casa l’opera di un omicida. Quel quadro era stato voluto per figurare la condanna più ingiusta dell’umanità e se la mano pittrice era la stessa che aveva compiuto un delitto, tutto il racconto rischiava di smarrire la sincerità che doveva dimostrare. Va inoltre considerato che un esponente della famiglia, monsignor Innocenzo Massimi, nel 1623 divenne nunzio apostolico in Madrid e potrebbe aver fatto da tramite alla migrazione spagnola dell’opera, in tal caso non certo all’indomani della sua esecuzione. Dà poi ragione al Bellori e non va accolto come un caso, il fatto che oggi riemerga proprio a Madrid un dipinto perfetto per stile, per concetto e sentimento a quel che il genio compiva nell’ultimo suo periodo romano.

Oltre alla struggente bellezza anche la radicalità spirituale dell’opera è di gran lunga superiore a quella del dipinto di Genova. Il quadro di Palazzo Bianco è costruito senza tensioni o torsioni formali, sempre presenti in Caravaggio, mentre per contro risultano troppo caricati i caratteri espressivi. Nel dipinto spagnolo invece si rende fisico un momento universale scavato nell’ombra per estrarne la massima intimità possibile. La poca luce che scende diagonale colpisce il petto di Gesù, il suo volto reclinato verso la spalla sinistra, rilevando gli occhi socchiusi in una sofferenza più delusa di quanto non sia offesa. Nel mezzo di due sguardi pungenti rivolti all’osservatore quel mesto distogliersi del Cristo diviene ancora più silente e sincero. Anche la fisicità compatta e brevilinea dei corpi, dei volti e delle mani, coincide con le opere romane di Caravaggio e ognuno degli attori rilascia un senso di istintiva familiarità. Il sacerdote in primo piano ha i medesimi caratteri del Giuda nella Cattura di Cristo di Dublino e del San Matteo andato distrutto a Berlino. Il viso di Cristo ha inclinazione e tipologie che ritroviamo nella Madonna dei Palafrenieri che è proprio del 1605, stessa la virgola di luce che, scavalcata la cupola dell’occhio socchiuso, rileva la radice del naso. Ancora più evidente la somiglianza nel volto del David, sempre della Borghese ed è qui, sulla struttura fisica dei due visi che bisognerebbe soffermarsi, per guardare come in entrambi i casi una netta parentesi chiuda l’ala del naso o come la luce che tocca la punta scenda alla sottostante columella. Che Caravaggio abbia ucciso per futili motivi o per legittima difesa forse non lo sapremo mai, ma resta indiscutibile la sua capacità di entrare dentro alle più profonde tematiche del sacro. Nessuno più di lui riuscì a colpire il fulcro religioso di ogni iconografia trattata, interpretando in modo così radicale il racconto evangelico. Se il Vero e il Sincero erano gli obiettivi eletti dal cardinal Paleotti perché l’arte di fine Cinquecento potesse riformarsi e tornare ad aderire al senso del sacro, di certo tutta l’opera del Merisi si erge a campione di quella metamorfosi che dal Manierismo giunse al Naturale senza fermarsi alla sola componente ottica, perché quella rivoluzione artistica fu soprattutto sentimentale e spirituale. Infine, ma nella consapevolezza che si tratti di un aspetto cruciale che un restauro metterà in evidenza è possibile rilevare anche a occhio nudo una serie di incisioni, di sottili solchi che interessano l’imprimitura della tela di Madrid e che sono ricorrenti nelle opere del Merisi. Se ne percepiscono sopra la mano destra e la spalla sinistra del Cristo, mentre nell’Ecce Homo genovese quei segni non risultano. L’eccezionalità del ritrovamento e la segreta permanenza del dipinto in Spagna, apre domande alle quali dovranno rispondere le prossime ricerche.

Fonte: Massimo Pulini – Avvenire

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