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Commento al vangelo Lc 24,35-48

Amici miei, ci capiterà spesso in questi cinquanta giorni di ascoltare racconti come questo. Il racconto di Luca che leggiamo in questa domenica è il continuo del racconto di Emmaus, quasi come un cortometraggio, un’appendice dell’incontro che è accaduto su quella strada. I due discepoli di Emmaus (Cleopa e forse io) rientrano a Gerusalemme; sono tornati di corsa, col cuore in tumulto.

Ripercorrono la strada che, mestamente, hanno fatto all’inizio di quel triste giorno. Il cuore era appesantito, scosso, rattristato. Entrati in città si dirigono nella casa di Giovanni Marco o, forse, in quella dell’evangelista Giovanni. Sanno che gli scampati sono chiusi, impauriti, nella stanza al primo piano, quella della Cena. Si fanno riconoscere. Entrano. Raccontano, in affanno. E mentre parlano, accade. Eccolo. Torna lui: il Risorto! Che meraviglia!

Parlano del risorto e il risorto appare! Così la fede si è trasmessa fino a noi, oggi, fino a me. E io mi preoccupo di raccontarvela di nuovo con i miei limiti, con quello che sono. Quando parliamo del Risorto, quando raccontiamo di come lo abbiamo conosciuto e incontrato nello spezzare il pane, l’eucarestia, o lungo la strada, il cammino di conversione, il Signore risorto, se non trova ostacoli, entra nel cuore di chi ascolta.

E, così, da bocca a orecchio, da cuore a cuore, siamo qui, oggi, a celebrare il Risorto. Nonostante i nostri limiti e i nostri dubbi. Dubbi che derivano dalla fatica nel credere nella testimonianza dei discepoli, come accaduto a Tommaso. O dubbi che derivano, in questi tempi, dalla non credibilità che sta uccidendo e mettendo a dura prova migliaia di fratelli cristiani. C’è un particolare molto bello che all’evangelista Luca non sfugge: in questa apparizione del Risorto il dubbio dei discepoli nasce dalla gioia. Sono talmente contenti che non riescono a crederci.

Della serie: “Troppo bello per essere vero!”. La troppa gioia spesso non ci fa credere sul serio a quello che stiamo vedendo. La gioia non è una suggestione, non è una finzione; è qualcosa di vero e nasce sempre da una tristezza superata. Cosa fa il Risorto per far capire ai suoi che quella gioia è vera? Il Risorto deve sedersi a tavola e chiedere da mangiare. Deve sedersi a tavola con noi, deve mangiare con noi.

Come facciamo a capire se una gioia è vera oppure no? La verifica della gioia sta nel fatto che questa cosa deve compromettere la nostra quotidianità. Una gioia è vera se essa cambia il nostro modo di svegliarci la mattina, di mangiare, di studiare, di lavorare, cioè nelle nostre cose semplici; una gioia è vera quando si insinua nella nostra quotidianità e cambia esattamente il nostro atteggiamento. Lì ti accorgi.

E Gesù è costretto a fare questo per dire: guardate che la vostra gioia è vera perché io sono vero. A quella piccola comunità, oltre che la gioia il Risorto fa altri due doni: la pace e una mentalità aperta. La pace, anzitutto. Quella che ci deriva dalla certezza di essere amati. La pace che non è un’irrealistica utopia di un mondo che, invece di andare verso l’unità, sembra esplodere nell’odio e nella violenza.

Il cristiano è pacifista perché pacificato, perché, in Cristo risorto, sa che nessuna croce è definitiva. La pace, che non esclude momenti di sconforto, di dubbio, di rabbia, è un dono che va accolto e conquistato. Il primo dono ai credenti. Dimorare nella pace significa mettere Cristo al centro, prenderlo come punto di riferimento definitivo e vincolante. Amare è vivere da risorti. La resurrezione non è qualcosa che ci capiterà un giorno, se facciamo i bravi. Ma la condizione in cui siamo posti da ora, se credenti.

Il secondo dono è una mente spalancata. L’evangelista Luca annota che il Risorto apre la mente dei discepoli all’intelligenza delle Scritture. Il nostro mondo crede che la fede chiuda la testa nel bigottismo, in chiusure medievali (ahimè spesso è così!); il nostro mondo crede che la fede ci faccia sospendere il nostro giudizio e la nostra attività di pensiero. La fede fa proprio il contrario: allarga le nostre menti, fa proprio il contrario. Allarga prospettive, le apre. Da soli noi siamo capaci solo di pregiudizio, cioè di fissarci solo su alcuni dettagli della nostra vita, della nostra esperienza. Credere significa vedere le cose nella loro interezza, nel loro orizzonte ampio.

Questo fa Gesù: ci ridona la realtà per quello che è e non per quello che pensiamo. Lo Spirito, dono del risorto, ci permette, attraverso la meditazione della Scrittura, di leggere la nostra vita ad un livello più profondo e autentico. Una bella sfida, amici. Ma se siamo qui, dopo duemila anni, è perché qualcuno ha preso molto sul serio l’invito del Signore ad essere suoi testimoni. Io ci sono, nel mio piccolo. E tu? Buona domenica!

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