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Così Dante porta sé stesso in Commedia

Inizia il cammino dell’italianista Carlo Ossola attraverso i personaggi delle tre cantiche che ci accompagnerà in questo anno del 700° dantesco. Partendo dall’autore, certo non mero scriba

«Conosciamo Dante profondamente grazie a un fatto rilevato da Paul Groussac [ Tolosa, 1848 Buenos Aires, 1929]: che la Commedia è scritta in prima persona. […] Bisogna ricordare che, prima di Dante, sant’Agostino aveva scritto le Confessioni. Ma queste confessioni, appunto in virtù della splendida retorica, non sono così vicine a noi come lo è Dante, poiché la retorica splendida dello scrittore africano si interpone tra quello che egli vuole dire e quello che noi percepiamo’ ( J.L. Borges, Sette Notti, I: La Divina Commedia). L’osservazione di Borges è acuta: il viaggio di Dante è così possente che lo pensiamo autore soltanto, come se l’io del viator fosse solo l’ombra dello scriba; non occupa dei propri tormenti le pagine come il Rousseau delle Confessioni; anzi, il poema si legge come se Dante avesse fatto passare le Confessioni di sant’Agostino attraverso il vaglio d’eternità della Città di Dio. Egli visita infatti le città di Dio (Inferno, Purgatorio, Paradiso terrestre, Paradiso) e ad esse si commisura, fragile e smarrito nella selva della tentazione. Egli si rivela poco a poco nel poema: conosciamo dapprima la sua paura di fronte alle fiere; sviene al racconto del dramma d’amore di Paolo e Francesca («E caddi come corpo morto cade», Inf., V, 142); gli salgono le lacrime al vedere la pena che flagella Ciacco ( Inf., VI), la «sozza mistura / de l’ombre e de la pioggia»; da quel dialogo apprendiamo che Dante è originario di una città toscana, come conferma l’apostrofe, poco dopo, di Farinata degli Uberti: «“O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto”» ( Inf., X, 22-23).

Al canto XV, si dichiara ch’egli è stato allievo di Brunetto Latini il quale gli raccomanda il suo Tesoro (v. 119). Ad ogni conversazione, Dante autore lascia trapelare un tratto dell’identità del personaggio, e specialmente nel Purgatorio negli incontri che più lo rivelano, nella sua quotidianità – di sorriso e di malinconia – come nel dialogo con Belacqua (canto IV), o nella complicità poetica con Casella, che gli intona la prima citazione dall’opera di Dante, Amor che ne la mente mi ragiona, canzone che apre il III libro del Convivio (II, 112 ss.). Solo al culmine della montagna, purificato dai peccati, ma non ancora deterso da essi, nel Paradiso terrestre è rivelato da Beatrice il suo nome; l’incontro tanto agognato diviene, nell’apostrofe di Beatrice, severo discorso di dura condanna: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» ( Purg., XXX, 55-57). Dal punto di vista dell’autore (e anche del lettore) è facile allegorizzare: il viator è appena stato assolto dalla ragione, promosso nella sua pienezza umana, come gli assicura Virgilio: «libero, dritto e sano è tuo arbitrio / […] per ch’io te sovra te corono e mitrio» ( Purg., XXVII, 140142); ed ora è messo a prova dalla teologia, alla quale deve ascendere.

Ma Dante personaggio patisce: coronato e, subito dopo, condannato; ha forse ragione Borges quando osserva: «Infinitamente ebbe vita Beatrice per Dante. E Dante assai poco, o nulla, per Beatrice. Noi tutti tendiamo, per pietà, per venerazione, a dimenticare questa disdicevole discordanza, inobliabile per Dante» ( Nove saggi danteschi)? In effetti, in più luoghi del poema Dante autore giudica del viaggio di Dante personaggio, non meno di quante il personaggio confessi, di fronte all’ardua prova, il proprio limite: «Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / ma degno a ciò né io né altri ’l crede. / Per che, se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle» ( Inf., II, 3135). Varcate le «gelate croste» di Lucifero e dell’Inferno, giunti i viatores di fronte alla montagna del Purgatorio, la voce dell’autore a sua volta esclama: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» ( Purg., III, 34-36). Tra la «venuta … folle» e il «Matto è chi spera» c’è stato il «folle volo» di Ulisse, definizione di una frontiera invarcabile del conoscere; per questo Dante conclude: «State contenti, umana gente, al quia» ( Purg., III, 37); giudizio che Dante, personaggio ancora e non meno autore, ribadirà al sommo del Paradiso: «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» ( Par., XXVII, 82-83).

Dante pur tuttavia cresce – ascendendo di cielo in cielo – nella consapevolezza dell’infinità dei mondi e del mistero che lo attende e lo assorbe: la sua consacrazione più alta avrà luogo nell’incontro con Adamo ove, se seguiamo parte dei codici più antichi, quelli esemplati dal Boccaccio (in particolare il Chigiano L VI 213) nonché le stesse Esposizioni del Boccaccio alla Commedia, e infine la maggior parte degli incunaboli, il nome di Dante viene nuovamente pronunciato, dal primo padre dell’umanità, che autorizza il nuovo testimone della discendenza redenta: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”» (Boccaccio, Esposizioni, Accessus).

Questo crescere è un modellarsi all’umiltà: intanto quella del discipulus che, per tutto il viaggio, si affida a una guida: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti; ma è altresì un ridivenire “fantolin”, “fantin” ( Par., XXX, 82-87), perché soltanto chi si fa piccolo può – come conclude il paragone dantesco – “immegliarsi”, secondo il detto evangelico: « nisi […] efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum cælorum » ( Matth., 18, 3). Il crescere di Dante personaggio, ben oltre i limiti del viaggio di Ulisse, non è un affrancarsi che potenzia, un esercizio superoministico; ma un accogliere più luce e più mistero, un rimpicciolire perché la Gloria meglio “penetri e risplenda” ( Par., I,2); è il divino splendore che deve crescere in noi, del quale il poema non sarà che favilla: «e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» ( Par., XXXIII, 70-72). Qui finalmente Dante personaggio e Dante autore vengono a coincidere: «povertà [di vita] e sapere e poesia, quale alleanza assicuratrice di giustizia!» (G. Ungaretti, Tra feltro e feltro, 1965).

All’apparire di Beatrice

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.

(Purg., XXX, 34-39)

Fonte: Carlo Ossola – Avvenire.it
Immagine: “Dante in esilio” di Domenico Petarlini. Firenze, Palazzo Pitti.

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