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Quell’ansia del Poeta per noi lettori

Il cenotafio di Dante, nella basilica di Santa Croce a Firenze dopo i restauri

Fin dal primo verso del grande poema ci considera coinvolti in un pellegrinaggio verso la felicità e la grazia. Così di volta in volta diventiamo suoi discepoli, accompagnatori e testimoni

Può mai essere un lettore, uno di noi, personaggio della Divina Commedia? Possiamo mai trovarci nel poema a dialogare con Dante? È ben vero che Ezra Pound ha osservato che: «In un senso ulteriore [la Commedia] è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare ‘Ognuno’ [Everyman], cioè ‘Umanità’, per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (Dante, in Lo spirito romanzo, 1910); ma è altrettanto vero che Dante ha scelto gelosamente le sue guide, tutte di alta responsabilità (il poeta Virgilio, l’amata Beatrice, il campione della Vergine, san Bernardo). Ove mai potrà esserci posto per noi nel poema? Eppure c’è, e sin dal primo verso: «Nel mezzo del cammin di nostra vita »: quel ‘nostra’ è la vita di Dante e di ognuno di noi, pellegrini con lui nella selva della tentazione, nel cammino di redenzione.

Da quel primo verso del poema il lettore non è più spettatore ma parte del dramma che viene messo in scena. Gli indirizzi, le apostrofi, i richiami al lettore sono molteplici (sedici in tutta la Commedia: 5 nell’Inferno, 7 nel Purgatorio, 4 nel Paradiso), e toccano tutti e quattro i gradi della ‘lettura’, così com’era concepita dalla tradizione medievale: lectio, meditatio, oratio, contemplatio. Il patto di lettura, prima di tutto, e i limiti che l’autore detta: «Nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo» (Inf., XXXIV, 23); la meditazione, poi, continua, che la lettera del testo richiede: «Pensa, lettor, se io mi sconfortai» (Inf., VIII, 94), «Pensa, lettor, s’io mi maravigliava» (Purg., XXXI, 124), «Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia / non procedesse…» (Par., V, 109-110); l’orazione attenta che è richiesta – e l’intercessione necessaria – per accedere alla conoscenza del vero: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista…» (Par., X, 7-8), «Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione…» (Inf., XX, 19-20); la contemplazione infine, che è frutto e dono di quel lungo esercizio: «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero» (Purg., VIII, 19).

Come Dante è discipulus che ha costante bisogno di guide: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti del poema; così il lettore deve apprendere come scolaro: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima che stanco» (Par., X, 22-24), nella stessa attitudine che Dante per sé adotta: «come discente ch’a dottor seconda » (Par., XXV, 64). Nello stesso tempo, divenire lettore della Divina Commedia è esercizio che richiede pazienza e almeno quattro letture che permettano di cogliere i quattro sensi del poema, che Dante trae dalla tradizione esegetica biblica e che spiega nella Epistola a Cangrande della Scala, suo protettore, spiegandogli i sensi crescenti del versetto: «In exitu Israel de Aegypto». Il senso letterale è vero nella sua storicità (noi sappiamo che il popolo eletto uscì dall’Egitto sotto la guida di Mosè); così va inteso, e- gualmente, quello allegorico: la nostra emancipazione dal peccato per la Redenzione elargita dal sacrificio di Cristo; e non meno quello tropologico (la conversione di ogni anima credente dal lutto e miseria del peccato allo stato di grazia); e infine quello anagogico: l’uscita finale di ogni credente e di tutta la Chiesa dalla «servitù di questa terrena corruzione alla libertà dell’eterna grazia » (Ep. XIII, 21).

Dante segue qui la celebre Scala Paradisi: «Cercate leggendo e troverete meditando. Bussate pregando e vi sarà aperto contemplando. La lettura porge come un cibo sostanzioso alla bocca; la meditazione lo sminuzza e lo mastica; l’orazione gli dà sapore; la contemplazione è quella dolcezza che allieta e sazia». Ma Dante è personaggio complice con il suo lettore; lo chiama spesso a testimone di esperienze che considera comuni: «Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe / ti colse nebbia per la qual vedessi / non altrimenti che per pelle talpe». È l’imperioso incipit del canto XVII del Purgatorio, e Dante vuole il lettore vicino quasi per fargli constatare qualcosa che questi può aver vissuto: la nebbia che avvolge d’improvviso chi salga verso una cima. Francesco Torraca osserva, a proposito di questo celebre paragone: «Ricorditi, lettor: entra speditamente in materia il poeta, supponendo che il lettore possa aver, qualche volta, osservato un fatto capitato a lui, forse più d’una volta, nell’alpe, ne’ monti, che separano la Toscana dalla Romagna (Inf., XIV, 30 n.) o in quelli della Lunigiana (Inf., XXXII, 29 n.)».

Ecco, il lettore non può stare indietro: l’apostrofe di Dante è quasi intimata proprio per accertarsi che il lettore lo segua, che stia al passo della propria ansia di salire e di raggiungere la vetta: Osip Mandel’štam nel suo saggio Conversazione su Dante, 1933, ha osservato che Dante è sempre in marcia, sempre in ascesa, e che anche la sosta è appena un movimento sospeso. Il lettore ugualmente non può concedersi tregua: è ‘in cordata’ con Dante e non può cedere. Più ancora, il poeta prende talvolta il lettore a testimone, arriva a sfogarsi e a giurare davanti a lui: «ma qui tacer nol posso; e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, /…» (Inf., XVI, 127-128). Dante giura sul proprio poema per avvalorare ciò che vide («venir notando una figura in suso »). Su questo verso l’Ottimo Commento, XIV secolo, ci propone una chiosa acuta: è davanti al proprio lettore che Dante, per la prima volta, pronuncia il nome del proprio poema, Comedia: «Considera qui, lettore, che l’Autore fa suo giuro per li versi di questa Commedia, ove sono da notare due cose: l’una, il nome di questo libro, lo quale qui l’Autore medesimo impone; l’altra, che l’Autore desidera, che questa sua opera sia gradita infra le genti per lungo tempo». La teoria moderna del Lettore come teste e garanzia del libro trova in Dante il suo primo e saldo fondamento: davvero Lector in fabula.

Terzine eponime

Ma qui tacer nol posso; e per le note

di questa comedìa, lettor, ti giuro,

s’elle non sien di lunga grazia vòte,

ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro

venir notando una figura in suso.

(Inf., XVI, 127-131)

Fonte: Carlo Ossola – Avvenire.it
Immagine: Il cenotafio di Dante, nella basilica di Santa Croce a Firenze dopo i restauri


Carlo Ossola

Critico letterario italiano (n. Torino 1946); professore di Letteratura italiana nelle università di Ginevra (1976-82), Padova (1982-88) e Torino (1988-1999). Dal 2000 è professore al Collège de France di Parigi, cattedra di Letterature moderne dell’Europa neolatina.

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