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In cammino con Dante/3. Modello, mito, padre: chi è davvero Virgilio per Dante?

Delle guide che accompagnano e illuminano Dante nel viaggio di conoscenza e di salvezza, Virgilio ha il ruolo più esteso: è scorta di Dante per due cantiche sino alla cima del Purgatorio ove, nel Paradiso Terrestre, si rivela Beatrice. Non è solo Maestro ma anche “dolce padre”, consolazione e sprone, modello e mito. Appare sin dal canto I dell’Inferno, come uscito da un millenario silenzio: «dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco» (vv. 62-63), lieto a sua volta di acquistare voce e vita di fronte a un uomo che «rovinava in basso loco». La sua autopresentazione è solenne, e subito intessuta dei caratteri che saranno proprii di tutta la Commedia, la naturalezza del latino, la coscienza dell’unità profonda della penisola italiana nell’eredità di Roma: «[…] li parenti miei furon lombardi, / mantovani per patria ambedui. / Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, / e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto / nel tempo de li dei falsi e bugiardi» (vv.68-72). Dante lo elegge come magister, al posto di Aristotele, come era uso nella tradizione medievale, e Dante dichiarava ad apertura del suo Convivio; nell’Eneide infatti viene cantato il destino provvidenziale della fondazione di Roma, «di quella Roma onde Cristo è romano» (Purg., XXXII, 102), poiché la Roma di Pietro, e non più Gerusalemme, è la sede della cristianità. L’Eneide è dunque pensata come annuncio e preparazione della “nuova Roma” della fede: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne di Troia»: Virgilio si presenta come cantore di “quel giusto”, poiché giustizia è – dal Convivio al De Monarchia alla Commedia – il fondamento di ogni degno ordinamento terreno. Lo conferma, in uno dei passi più belli sul pensiero di Dante, il filosofo Étienne Gilson: «Se esiste una visione unificante della sua opera, essa non si identifica né in una qualche filosofia né in una causa politica, neppure in una teo- logia. La si troverà piuttosto nella coscienza, così personale, ch’egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che essa impone» ( Dante e la filosofia). Il poeta si presenta, a sua volta, come discepolo fedele: «O dei li altri poeti onore e lume, / vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu’ se’ lo mio maestro e ’l mio autore» (I, 82-85).

Il termine “autore” non significa soltanto il modello del «bello stilo che m’ha fatto onore» (sì che Dante si presenta a sua volta come autore di un poema epico), ma è anche auctor, colui che nutre e fa crescere il personaggio: ne è propriamente “il nutritore”. Dante si pone come “creato” di Virgilio, nuovo “ pius Aeneas”, del quale nel Convivio aveva tracciato l’alta missione: «Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni» (lib. II, X, 5-6). E non è solo magnanimità umana, ma grandezza del destino di una Roma eterna: «Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s’accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: “A costoro – cioè a li Romani – né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine”» (lib. IV, IV, 11).

Di questa Roma eterna, perché cristiana ormai, Dante si farà cantore. Sebbene quella del “famoso saggio” (I, 89) sia la funzione principale, e Virgilio additi a Dante, giunti al Limbo, la “bella scola” di cui fa parte: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, sì che – aggiunge con orgoglio Dante – «io fui sesto tra cotanto senno» (IV, 102); nel poema tuttavia Virgilio è davvero “compagno” maggiore di Dante, in tutto: con prontezza raccoglie una manata di terra e la butta in gola all’avido Cerbero: «E ’l duca mio distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne» ( VI, 25-27). Giunti nella palude che circonda la città di Dite ( Inf., canto IX), Virgilio mette energicamente le proprie mani sopra quelle di Dante, per chiudergli gli occhi, affinché non abbia ad esser accecato dallo sguardo della Gorgone; esorta e sprona, difende Dante e lo punge, gli indica persino le anime con cui il viator deve parlare, e delle quali non s’era accorto: «Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: /da la cintola in su tutto ’l vedrai”» (X, 31-33).

Più cresce la gravità delle colpe e delle pene, più la dolente tristezza dei due viandanti li pareggia in un’unica angoscia: «Passo passo andavam sanza sermone, / guardando e ascoltando li ammalati, / che non potean levar le lor persone» (XXIX, 7072). Di fronte ai giganti posti a guardia del pozzo ultimo della Caina, Virgilio prende per mano Dante (XXXI, 28); stringe Dante a sé, alla presa di Anteo: «poi fece sì ch’un fascio era elli e io» (XXXI, 135), come prima l’aveva avvinto con le braccia, per scendere in groppa a Gerione a Malebolge (XVII, 1-27 e 91-111). Ma il Virgilio più autentico è quello che, in Purgatorio, dispiega tutta la pietas e tutta la nobiltà della ragione, di cui è emblema: non solo deterge la caligine infernale (“sudiciume”) dal volto di Dante, ma via via si fa il suo araldo: da quando dice solennemente a Catone: «libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta» (I, 71-72) a quando coronerà Dante, libero ormai dalla colpa, e pronto a vedere Beatrice: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio / […] / per ch’io te sovra te corono e mitrio » (XXVII, 139-140). Dante cresce, ma Virgilio non scema: l’incontro con il conterraneo mantovano Sordello, al canto VI, e soprattutto con Stazio al canto XXI, sono tra i momenti più alti del poema, qui paragonata la scena addirittura all’incontro di Cristo con i discepoli di Emmaus: «Ed ecco, sì come ne scrive Luca / che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, / giù surto fuor de la sepulcral buca, / ci apparve un’ombra, e dietro noi venìa» (vv. 7-10).

Ed è proprio Stazio a tessere il più alto, malinconico e inobliabile, elogio di Virgilio: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova» (XXII, 67 68). Egli è stato il lanternarius, il lampadoforo del nuovo Annuncio: «quando dicesti: “Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano”» (vv. 70-71). E allo svelarsi di Beatrice, Virgilio è come “mamma” alla quale corre il “fantolin” impaurito da tanta apparizione: Virgilio, madre e padre del pellegrino, così come, per i secoli cristiani sin da Agostino, era stato il sommo sapiente: «Quanto sia importante questo problema lo dichiara il nobilissimo verso di Virgilio: Fortunato chi è riuscito a conoscere le ragioni delle cose [ Georg., II, 489]» ( La Città di Dio, lib. VII, 9).

Fonte: Carlo Ossola – Avvenire.it

Carlo Ossola
Critico letterario italiano (n. Torino 1946); professore di Letteratura italiana nelle università di Ginevra (1976-82), Padova (1982-88) e Torino (1988-1999). Dal 2000 è professore al Collège de France di Parigi, cattedra di Letterature moderne dell’Europa neolatina.

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