Sul grande e articolato palcoscenico dove si svolge il dramma ‘migrazioni’, si muovono personaggi meno mediatici di altri. Forse perché sono troppo piccoli
C’è una frotta di ragazzini che rende le classi elementari e medie delle nostre scuole multi-tutto: multiculturali, multilingue, multicolore. È la “seconda generazione” di bambini immigrati: oltre ai ragazzini nati in Italia da genitori immigrati, ci sono anche quanti sono arrivati da noi ancora piccoli o in età scolare, e chi è cittadino italiano perché uno dei due genitori lo è.
Nei mesi scorsi l’Istat ha pubblicato un interessante rapporto dal titolo Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia, che offre una fotografia dettagliata di questa popolazione. Ci si riferisce a poco più di un milione di soggetti. Il documento approfondisce un’indagine realizzata alcuni anni or sono, analizzando provenienza geografica, composizione familiare (spesso mono-genitoriale o senza la presenza dei genitori), integrazione e socializzazione di questo popolo variopinto.
Viene misurata l’incidenza della comunità di origine sul rendimento scolastico e di questo sull’integrazione; viene fatta una proiezione di come questi elementi influenzeranno il futuro dei ragazzi, quando cercheranno lavorato. Ne emerge uno scenario complesso, fatto di sfide importanti, che mi spinge a leggere questo universo con qualche riflessione che sguscia fuori dalla mia, pur minima e localizzata, esperienza sul campo. Due sale adibite a doposcuola per ragazzi stranieri in un quartiere periferico di una città del Nord.
I numeri prendono le sembianze di un volto, di un nome, diventano rapporto personale con ognuno di questi bambini. E lì casca l’asino. È come entrare nelle statistiche dalla porta di servizio, quella che ti introduce direttamente in cucina e il contatto diretto, vitale, ti mostra cose che i numeri non riescono a mostrare.
A. dall’Ecuador, E. dalla Nigeria, F. di famiglia cinese e C. indiana, D. della comunità rumena… si potrebbe continuare: tanti piccoli mondi chiusi in case di solito anguste, satelliti dei Paesi di origine dove si continua a parlare cinese, arabo, indi, e il profumo del cibo (a parte la pizza ormai promossa a dignità multietnica) è quello d’altri luoghi della Terra. Mondi chiusi, salvo la finestra temporale che va dalle 8 del mattino all’una di ogni giorno feriale.
Noto tante contraddizioni. Lo scoglio più duro ha a che fare con la padronanza della lingua italiana, quella giustamente richiesta dai programmi ministeriali. Scontro quotidiano, in un corpo a corpo faticoso, con personaggi epici e versi danteschi, con complementi di causa e parafrasi dell’Orlando furioso. Fanno molta fatica, anche se potrebbe sembrare strano, i bambini di madre lingua spagnola e gli arabi. Eppure, se si chiede loro da dove provengono, nessuno nomina il Paese di origine. Si dichiarano italiani, e l’Italia è bella, pulita.
Ad un approccio più scavato, «ti senti italiano?» tergiversano, eludono la domanda, confermano in pratica quanto i termini tecnici riferiscono come identità sospese, appartenenza multipla e ibridazione dell’identità. Questi ragazzini si devono conquistare giorno dopo giorno la loro “cittadinanza”, e non solo quella del passaporto. Chiacchierando di amicizia e compagnia, con una maturità precoce, spiegano l’importanza di superare i pregiudizi, di essere accettati al di là delle apparenze. Il più silenzioso e riservato è il ragazzino cinese.
Poi c’è il banco di prova quotidiano rappresentato dalle sollecitazioni del consumismo: la voglia di essere come gli altri, lo smartphone vecchio dello zio che non regge il confronto con quelli dei compagni di classe, la felpa un po’ usata. L’Africa anche qui paga lo scotto. I compiti diventano una scusa perfetta per avvicinarsi, per raccogliere briciole di vita: una confidenza, uno sfogo, la prima delusione amorosa e si diventa amici, alla faccia della differenza di età. Accanto alle fatiche, grandi per spalle ancora piccole, si scoprono altrettante grandi ricchezze. La più bella di tutte sono i loro sogni, perché non guardano allo scarso rendimento scolastico o alle possibilità economiche, sono sogni grandi: farò l’oncologo, il pilota, la hostess.
Solo chi arriva al primo anno delle superiori abbassa l’asticella: la cuoca, il meccanico…Le analisi sono necessarie perché inquadrano il problema e forniscono elementi utili allo sviluppo di adeguate politiche pubbliche, ma è altrettanto importante, o forse di più, recuperare il micro. Questi piccoli attori non vivono su pianeti paralleli, sono i figli del fruttivendolo del Bangladesh, sono i ragazzini del parrucchiere cinese o di quell’uomo marocchino che incontri sul treno dei pendolari, già stanco alle 7 del mattino.
Abitare la semplice attenzione, occuparsi dell’incontro, guardare negli occhi… tutte cose che le disposizioni ministeriali – fossero anche perfette – non riescono a chiederci. Il macro diventa micro e occorre non stancarsi di scoprire questi volti: è nella prossimità, quella magari un po’ fastidiosa, che prendono vita i cambiamenti della società, a partire da persone concrete, dal contatto umano.
È il valore sociale dei piccoli atti. E se abbiamo imparato a nostre spese che ogni nostra azione può avere una ripercussione negativa sugli altri – vedi virus –, perché ciò non dovrebbe valere anche in positivo, specialmente con i più piccoli?
Fonte: Daniela Bignone – Cittànuova.it