Colloquio con lo storico Agostino Giovagnoli che ricorda come in occasione del voto per la Costituente, il due giugno, uomini come De Gasperi, La Pira, Dossetti, Lazzati, Fanfani e Moro seppero tradurre le idee del magistero in progetti concreti, fondamentali nel modellare la Carta all’insegna dei diritti individuali e della solidarietà
Per lo storico Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, il plebiscito tra Monarchia e Repubblica e le elezioni per la Costituente segnano il “grande ritorno” per i cattolici. «La novità di questo primo grande appuntamento elettorale del dopoguerra (c’erano state anche le amministrative ma certo non ebbero la stessa importanza) è proprio questa: la partecipazione del mondo dei credenti nel suo complesso. L’esperienza era stata interrotta dal fascismo ma anche dalla Chiesa stessa: sotto il pontificato di Pio XI ci fu un grande vuoto che ora, con De Gasperi, veniva colmato».
C’erano state delle avvisaglie di questo “grande ritorno”?
«I cattolici tornarono senza riserve dopo che nel 1944 Pio XII affermò che la democrazia è il sistema politico preferibile. Anche sulla spinta di queste parole si inserì la formazione della Democrazia cristiana, che raccolse la grande maggioranza dei cattolici, non a caso fondata da un gruppo di ex popolari, di “liberi e forti” che erano stati in qualche modo condannati perché avevano ostacolato i rapporti tra Chiesa e fascismo Furono loro i politici riconosciuti come leader (primo luogo De Gasperi), coloro che potevano guidare il ritorno dei cattolici in politica».
Si può dire che i cattolici si riappropriano della politica dopo che questa funzione era stata demandata alla Chiesa e al suo rapporto-scontro con il regime di Mussolini?
«In qualche modo sì. De Gasperi intuì che il Concordato del 1929 rimuoveva un ostacolo insuperabile all’impegno dei cristiani nella cosa pubblica. Ma quella premessa non aveva sortito effetti sotto il regime fascista. Solo dopo il suo crollo i cattolici poterono riprendere l’iniziativa».
Che ruolo ebbe l’evento di Camaldoli, che anticipò in piena guerra l’avvenire del Paese?
«Nel luglio 1943 nell’eremo di Camaldoli un gruppo di laureati cattolici organizzò una settimana di studi dedicata sostanzialmente alla nuova Italia: si parlò di Stato, economia, relazioni internazionali. Si progettò il futuro. Fu un momento di fermento, perché prima dell’8 settembre c’era già stato un segnale con il famoso messaggio di Natale del 1942 di Pio XII. Un messaggio sulla ricostruzione sociale, che invitava i credenti a reagire».
I cattolici capirono che quelle parole spronavano all’azione?
«Lo percepirono perché avevano i contatti giusti. Il rettore della Cattolica, padre Agostino Gemelli, scrisse all’allora sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, e lui rispose: “Andate avanti”. Anche Sergio Paronetto, uno dei principali ispiratori del Codice di Camaldoli, si rivolse a Montini, e probabilmente ricevette la medesima risposta. Paronetto e i laureati cattolici erano legati alla Santa Sede».
I cattolici erano prevalentemente monarchici o repubblicani?
«Erano l’uno e l’altro, anche se non sappiamo in quali percentuali. La componente monarchica era molto forte, tanto che De Gasperi evitò un pronunciamento esplicito per la Repubblica. Ci fu un invito a votare Dc fatto in modo tale da non scoraggiare i fautori dei Savoia, che, com’è noto, al Sud ottennero la maggioranza. C’erano prelati più realisti del re come il cardinale di Napoli Alessio Ascalesi, celebre per le sue posizioni monarchiche».
Quale fu il contributo dei cattolici nella Costituente?
«Possiamo partire dall’immagine evocata dal giovane Aldo Moro della “casa comune” durante i lavori, nel marzo ’47. Moro aggiunse con nettezza che la “casa comune” si basava sull’antifascismo. Non era scontato per un uomo che veniva dal Sud e non aveva partecipato alla Resistenza. Per Moro l’antifascismo non era un partito o una fazione, era un baluardo morale. I cattolici hanno sentito la Costituente come occasione per costruire una comunità al servizio di tutti. Più degli altri i democristiani coltivavano l’idea che con la Costituzione si ponevano le fondamenta di una costruzione in cui tutti si potessero riconoscere. Credenti come Lazzati, Fanfani, La Pira, Dossetti accolsero la miglior eredità liberal-democratica, alla Costituente i liberali erano in minoranza, che affondava le sue radici nelle idee di libertà, uguaglianza e fraternità della Rivoluzione francese. Raccolsero cioè il meglio del liberalismo, direi, come la libertà di stampa, di religione… lo unirono, nella Carta, a una visione solidarista, condivisa in parte anche da socialisti e comunisti. I primi dodici articoli, quelli irriformabili, dedicati ai diritti fondamentali della persona, vero e proprio architrave della Costituzione, si devono in gran parte al personalismo cristiano di Maritain e, soprattutto, alla visione illuminata e profetica di Giorgio La Pira».
Il laico Croce evocò il Veni Creator alla fine dei lavori. Perché? «La cosa fece molto stupore conoscendo l’anticlericalismo di Croce. Ma il filosofo era un grande ammiratore del cristianesimo inteso come ispiratore della civiltà. Celebre il suo “perché non possiamo non dirci cristiani”. Inoltre aveva percepito il perdono cristiano come fondamento della ricostruzione post bellica. Durante i lavori pareva un po’ infastidito da trattative fin troppo minuziose sul testo dei vari articoli. E così, per riportare la nuova Carta su un livello alto come lui voleva, concluse con quella suggestione, con quell’inno liturgico legato allo Spirito Santo».
Fonte: Francesco Anfossi – Famiglia Cristiana