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Parole cadute in disgrazia, o quanto meno poco usate oggi, se non per connotare negativamente una persona ritenuta pigra e indolente. E’ noto infatti il detto napoletano “Comme te siente ogge? Comm nu’ lazzarone” In fondo guagliuni, lazzari e scugnizzi, sono quasi l’emblema del popolo partenopeo. Ma al di là della facciata oleografica che li vuole sempre allegri, indolenti e sdraiati al sole, pronti a cogliere il lato scanzonato della vita, c’è tutta una storia di miseria, di dolore e di degrado da considerare. In fondo hanno caratterizzato a lungo la storia di Napoli, a partire dai ragazzi “tinti in volto” che seguivano il capopopolo Masaniello, e ai lazzari del 1799 schierati perlopiù a fianco dei Borbone, fino ai coraggiosi piccoli eroi delle Quattro giornate di Napoli.

E non va neppure dimenticato quanto questi ragazzi siano stati protagonisti sia nei momenti di aggregazione festosa, come la festa di Piedigrotta, sia nelle rappresentazioni artistiche come pittura, scultura, cinema e teatro. E’ di qualche decennio fa la rappresentazione del musical “Scugnizzi” che ha riscosso un successo notevole da Agrigento a Trieste, e ha raccontato tanto sulla voglia di riscatto delle giovani generazioni.

Cominciamo dai vocaboli: lazzarone deriverebbe, secondo benedetto Croce, dallo spagnolo antico laceria -dal latino lacerus: lacero, strappato- con cui si definiva sia la lebbra sia la miseria, per cui lazzaro ha il significato di pezzente cencioso. Nell’italiano comune indica un poco di buono. Nel Regno di Napoli e soprattutto nella capitale, i “lazzari” costituivano una “società a parte” e rispondevano a un loro codice di gruppo, una comunità con una vera e propria gerarchia che prevedeva anche l’elezione di un capo, riconosciuto e accolto in via ufficiale dalla corte reale. Ma in realtà che mansioni svolgevano? Di tutto, non un lavoro normale continuo, ma come potevano e quando volevano. Interessanti i commenti di due grandi intellettuali del passato.

Montesquieu, nel 1728, all’epoca del vicereame austriaco, quando per conto degli Asburgo regnava il conte di Harrach, fra le cause della demografia in crescita continua, annoverava la miseria e la pigrizia dei napoletani: “Vivono di un po’ di elemosina, di un po’ di minestra, di pane e di carne che distribuiscono i ricchissimi conventi della città. La gente viene dalle campagne, vive dapprima di elemosina, e poi continua a vivere cosi, o campa in altro modo miserabile”.

Goethe, invece, che arrivò a Napoli capitale del nuovo regno fondato nel 1734 da Carlo di Borbone, con un sovrano regnante di trentasei anni, Ferdinando IV, rimase talmente estasiato da quella plebe apparentemente inoperosa che, ritornato in città a fine maggio, dopo aver finito il suo giro in Sicilia, spiegò come l’infingardaggine dei napoletani celasse invece una forma di attività peculiare e ben più astuta, capace di approfittare, con infinite variazioni, dei tempi morti e di ogni occasione di godimento: “Più mi guardavo intorno, più attentamente osservavo, e meno riuscivo a trovare autentici fannulloni, nel popolino minuto come nel medio ceto, sia al mattino sia per la maggior parte del giorno, giovani o vecchi, uomini o donne che fossero”.

Le classi basse, quantunque malvestite e cenciose, erano ai suoi occhi le più industriose. “Non lavorano semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria”. “E’ per questo che le fabbriche scarseggiano”, concluse Goethe, “e l’istruzione lascia a desiderare, e non esiste un pittore napoletano che sia un caposcuola mentre i preti si adagiano nell’ozio e i nobili sprofondano nello sfarzo e nella dissipazione”.

L’organizzazione dei lazzari era una sorta di auto-organizzazione e mutuo soccorso, che i ceti più poveri mettevano in campo per difendere la propria esistenza; per questo sono stati definiti eredi di Masaniello. Durante la repubblica Partenopea si batterono sulle mura di Napoli a favore dei Borbone, ma alcuni capi lazzari, quali Antonio D’Avella, detto “Pagliucchella” e Michele Marino, detto “ ‘o pazzo”, aderirono alla causa repubblicana e furono impiccati il 29 agosto del 1799 a piazza del Mercato.

C’erano tra loro sicuramente malavitosi e il confine tra camorra e lazzaria è molto sottile. Infatti leggiamo in Carlo del Balzo alcune abitudini dei lazzaroni che si possono rintracciare nelle “paranze” della delinquenza; lo scippo, lo sfregio, il piatto di maccheroni mangiato, con le mani, in mezzo alla via, coram populo. Lo scippo è rimasto e lo sfregio alle donne pure.

Solo che allora il lazzaro si vendicava dell’amante infedele, dandole un solo colpo di rasoio sul viso, sfregiandola. Pare impossibile ma quelle donne non si ribellavano, anzi, mostravano con orgoglio, la cicatrice, perché era il segno che erano state amate veramente.

Questa la storia nuda e cruda. Ma perché tanti ragazzi prendevano questa strada? E adesso? Non seguono forse quella stessa dannata strada? Ancora oggi Napoli e il sud in generale porta la nomea della terra della sporcizia e della corruzione, della disoccupazione per scelta, l’inferno e il luogo dove il comportamento illegale diventa un dato antropologico.

Nascere al Sud significa essere così: indolenti, pigri, corrotti…lazzaroni? Ma come ci siamo finiti in questo stereotipo culturale? E’ la storia a dircelo. Il dominio degli Spagnoli in Italia fu una vera e propria disgrazia. E ce lo racconta in modo magistrale Manzoni nei “Promessi Sposi.” Oltre che in campo politico l’egemonia spagnola fu distruttiva in economia.

Nella sua ottusa rapacità militaresca, il governo spagnolo adoperava i propri domini solo per spremere denaro e arruolare soldati per le sue guerre. Gli stessi fenomeni di decadenza economica e demografica, che avviavano alla rovina la Spagna, si riproducevano in Italia.

Mentre privilegi e titoli altisonanti tenevano contenti e sottomessi la nobiltà ed il clero, il popolo languiva nella sua miseria, falcidiato periodicamente dalle carestie e dalle pestilenze, senza poter esprimere il proprio malcontento che con qualche rivolta disordinata di affamati, e col brigantaggio. Ma poi ci fu il regno di Carlo III e successivamente del figlio, Ferdinando IV di Borbone, una promessa di riscatto, un regno in rapida crescita e all’avanguardia in Europa, un regno che aveva tutte le condizioni per trasformarsi. “Lì era stata costruita la ferrovia più moderna d’Italia, era nata un’industria meccanica di precisione, un’industria tessile promettente, nelle valli del Liri e dell’Irno.

All’Esposizione universale di Parigi del 1856 il Regno di Napoli risultava essere non solo il più esteso d’Italia, ma il più industrializzato, terzo in Europa dopo Inghilterra e Francia. A Pietrarsa, nel 1840, e cioè ben quarantaquattro anni prima della Breda, era stata inaugurata la fabbrica metalmeccanica di motrici a vapore per uso navale, rinomata in tutta Europa, che lo zar Nicola I prese a modello per i cantieri di Kronstadt.

In Calabria, a Mongiana, nell’attuale deserto boscoso delle Serre, smantellato e abbandonato subito dopo l’arrivo dei piemontesi, sorgeva un complesso siderurgico all’avanguardia, che fornì le catene per i ponti sul Garigliano e sul Calore e che fino al 1860 era stato il maggior produttore di ghisa e semilavorati.

Quanto al tessile, a Salerno il cotonificio von Willer impiegava 1425 operai, la filanda di Piedimonte 2159, quando in Lombardia la filatura Ponti non raggiungeva i 414 addetti. E riguardo alla flotta, quella delle Due Sicilie era la quarta del mondo, con 9800 bastimenti, di cui un centinaio a vapore, 40 cantieri navali di prim’ordine, come i Filona al Ponte di Viglieno, da cui nel 1818 usci il primo vascello a vapore del Mediterraneo, o Castellammare di Stabia, che con 1800 addetti era il primo cantiere navale del Mediterraneo.

Inoltre, per guidare la politica economica del regno, i “retrivi” Borboni nel 1851 avevano istituito la Commissione statistica generale, affiancandola alle giunte provinciali e circondariali e a un istituto di Incoraggiamento per l’iniziativa privata. Risultato: da quando, nel 1734, Carlo di Borbone era arrivato sul trono, la popolazione a Napoli era triplicata. E nel 1861 la bilancia commerciale era in attivo per 35 milioni di ducati”( Marina Valensise “Il sole sorge al Sud). Poi l’unità d’Italia, e la storia è cambiata completamente e nell’immaginario collettivo siamo sempre e solo i soliti “lazzaroni”.

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