Quando qualcuno ci lascia, specie se lo abbiamo sempre considerato parte integrante della nostra vita, ci mettiamo un bel po’ a metabolizzare l’evento. Non esiste una morte aspettata o inaspettata, esiste la morte, sic et simpliciter, che con un colpo secco falcia una vita e non ha importanza nemmeno l’età, gli acciacchi o le speranze di quel che poteva essere e non è stato. Nulla, non poteva essere nulla di più o di meno di quanto è stato perché il freddo gelido della morte ha cristallizzato tutto quel che ruota intorno a chi scompare, prematuramente o meno. Non poteva accadere nient’altro di quel che è accaduto se no sarebbe successo, senza ma e senza se.
La prima reazione è lo shock, travestito da distacco, come se il dolore non fosse il tuo, come se l’evento non ti appartenesse, come se. A seguire la rabbia e il fisiologico cercare un filo che conduca a un responsabile, a una ragione, a un disegno. Ecco la mente che vuole ad ogni costo partecipare all’imponderabile, scrutarne le pieghe oltre alle piaghe, darsi delle motivazioni, delle pillole di saggezza a buon mercato che facciano da placebo e leniscano l’anima. Ma il placebo resta tale e non cura, inutile prendersi in giro.
Prima della resa ad una battaglia persa in partenza, dove si lotta strenuamente fino all’ultima lacrima ingoiata, scatta il sarcasmo con cui scimmiottiamo con parenti e amici (mentre l’anima sorniona sghignazza –a chi vuoi darla a bere? -) pensieri filosofici e altre amenità. “è solo passato dall’altra parte”, “vive sempre nel cuore di chi resta” ed altri placebo che nell’immediato hanno l’effetto di un blando analgesico naturale, sugli altri, quelli che siamo costretti per nostra natura a consolare.
L’unica verità che ci si tiene stretti in momenti come questi è che quando la morte si presenta senza preavviso e si porta via una parte di te, la prima cosa che ci viene in mente di fare è spaccare tutto, sbattere la testa contro il muro, bestemmiare se non lo si considerasse ancora un reato, malgrado la riforma del codice, e chiedersi, guardandoci intorno con aria stralunata, perché mai la gente continua a camminare, fare la spesa, respirare, se la persona amata è morta. Ci si chiede per quale ragione il mondo continua a girare se questa persona non calpesta più la sua terra, non osserva più le sue albe ed i suoi tramonti e da oggi in poi non digiterà mai più su WhatsApp nessun “ehi come stai?” ad uno qualunque dei suoi numeri in rubrica, compreso il nostro. E non arriveranno più notifiche del suo profilo facebook, non ci saranno più incomprensioni o cuori volanti nell’etere, nessuna litigata, neanche più un abbraccio rubato al covid, nulla.
E ci ostiniamo a non capire o a non voler capire per quale ragione la morte è così infame, arcigna, traditrice. E non risponde mai alla domanda “e ora?”. Sembra di vederla lì beffarda che dice “arrangiati”.
Prima o poi arriva un tempo che, di per sé, non risolve un bel niente ma, poiché è un tempo che trascorre malgrado noi e la nostra cristallizzazione, passando diluisce l’intensità della perdita, che all’inizio è un concentrato di implosione, dove tutti i film mentali terminano la loro proiezione e tutti i voli pindarici cessano d’improvviso il loro percorso. Accade che ognuno torna a casa propria, alla propria quotidianità e dopo il blackout si riaccendono le luci, il televisore, i cellulari. Si riaprono i negozi, si risponde alle email e si riprende a guardarsi allo specchio, noi e l’assenza. La vita che riflette la morte e viceversa.
Forse è questo quel tempo in cui ci si ferma e forse si riesce anche a emettere un singhiozzo, un attimo di cedimento, una lacrima. E si riesce a sentire dentro il dolore di tutte le lacrime non piante, di tutto il tempo non vissuto con chi se ne è andato, risolvendo rapidamente con “doveva andare così, va bene così”.
La verità è che col tempo, con la quotidianità, con gli anni, assumiamo fraudolentemente la credenza che chi amiamo e fa parte della nostra vita, diventi per una qualche strana ragione immortale almeno quanto noi, il tempo di quel breve spazio che intercorre tra la nascita e la morte e quando questa sopraggiunge ci sentiamo traditi, feriti nell’intimo, quasi fosse un gioco nel quale perdiamo perché qualcuno ha barato. Non doveva andare così, no, non dovevi proprio farmi questo sgarro. E restano piantati allo specchio i perché senza risposta e, se anche qualcuna affiorasse, fa così male che repentinamente la restituiamo al nulla da dove è arrivata, al groviglio di idee idiote e irrazionali che saltano su come grilli in estate che sai che esistono ma vederne uno ti scuote sempre un po’ per la rapidità del movimento.
Frammenti. Di ricordi, di foto sgualcite, di appunti con la sua calligrafia, di messaggi in segreteria, di battute, di vissuti, siamo frammenti di varie età che nel tempo formano quel che siamo e che percorrono un sentiero, qualche volta diroccato, qualche volta calpestabile, qualche volta tortuoso, lungo il quale, col tempo, si perdono per strada, amici, parenti, frammenti di noi e quando diciamo una parte di me se ne è andata con chi ci ha preceduto, non mentiamo, ci sentiamo davvero mancanti di quel frammento che fino a ieri avevamo e che ora non è più sul percorso.
Passo dopo passo, caduta dopo caduta, parti di noi se ne vanno, frammenti che si sgretolano lungo la vita fino a quando anche noi saremo il frammento di qualcuno che continuerà a camminare senza di noi. Dopo tanto tagliuzzarci l’anima, chissà se un giorno ci ricomporremo e se tutti quei frammenti lasciati indietro restano lì o alle nostre spalle si muovono come quando giocavamo a 1,2,3 stella che voltati all’indietro non si riesce mai a vedere che strada fanno.
Si arriva a un punto che non necessariamente è un bivio ma solo un punto dove ci si ferma un attimo a prendere fiato e si avverte la sensazione che mancano molti pezzi, qualcuno importante, qualcun vitale, qualcuno di meno, eppure mancano e sono lì con tutto il peso della loro assenza rendendo più povero il sentiero che resta da percorrere, che mai avresti immaginato di percorrere da frammento solitario e che comunque riserva ancora delle novità, quali che siano.
I frammenti che perdiamo, tuttavia, quelli con i quali, prima di lasciarli andare via definitivamente, ci feriamo, prima di averli perduti e rimpianti li abbiamo incontrati, vissuti e ne abbiamo fatto una parte di noi; ecco forse qui sta il punto, dal quale con o senza la morte, possiamo dire di aver incrociato frammenti di vita, altra da noi, speciale, autentica, irripetibile, unica.
Se Sant’Agostino scrive: “Signore, non ti chiedo perché me l’hai tolta, ma ti ringrazio perché me l’hai data”, Amedeo Minghi canta
“E’ lì che andrò
e parlerò
io l’ho goduta, perduta,
e voi no”
“Alla leggera” di A.M.
Signore grazie per avercela data, sul perché ce l’hai tolta, al momento mi riservo ancora.