Riprendiamo l’appuntamento con il viaggio nell’opera di Dante sotto la guida del Prof. Ossola.
Nel girone dei sodomiti Dante incontra lo scrittore e politico fiorentino. Non solo i versi del Tesoretto sono spesso citati, ma Latini fu il tramite del “Liber Scalae”, fonte islamica della Commedia.
Sotto le falde di fuoco che cadono senza posa sui sodomiti, Dante trova il proprio maestro, Brunetto Latini, traduttore dell’Etica di Aristotele e della Retorica di Cicerone; ora questi, dal «viso abbrusciato» dalle fiamme, tocca umilmente l’orlo della veste del discepolo, distendendo il proprio braccio martoriato; nel riconoscerlo Dante ha un gesto di pietas: «E chinando la mano a la sua faccia, / rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?” / E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia» (Inf XV, 29-33). La doppia ripetizione del vocativo, del nome di persona, è rara nella Commedia, superata solo dalla triplice invocazione del nome di Virgilio, nel momento in cui, al sommo del monte del Purgatorio, lascia luogo a Beatrice: «Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi» (Purg XXX, 49-51).
Chi era dunque Brunetto, al quale Dante riconosce un ruolo così alto? Grande personalità della storia fiorentina, nato da nobile famiglia intorno al 1220, attraversa da protagonista tutta la storia del XIII secolo e muore a Firenze intorno al 1294 o 1295. Scrittore, notaio, uomo politico, “scriba degli anziani” del Comune di Firenze, nel 1254, inviato presso Alfonso X di Castiglia per ottenere aiuto per i guelfi fiorentini, come scrive nel suo Tesoretto («Esso Comune saggio / Mi fece suo messaggio / A l’alto Re di Spagna», II, 11-13), ma la vittoria dei ghibellini a Montaperti (1260) lo costrinse all’esilio in Francia per quasi un decennio. Rientrato a Firenze, divenne nel 1273 Segretario del Consiglio della Repubblica e ricoprì altre cariche, tra cui quella di priore nel 1287.
La vicenda di Brunetto Latini è importante, nella Commedia, anche per un’altra vexata quaestio: e cioè se Dante abbia conosciuto il Liber Scalae Machometi (il Kitab al-Mirag, edito da E. Cerulli, Il “Libro della scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1949). La versione latina, e francese (da un esemplare ridotto dall’arabo al castigliano da Abraham Alfaquim) si deve a Bonaventura da Siena, “domini regis notarius et scriba”, alle dipendenze della corte di Alfonso nel 1264, presso la quale egualmente si reca, negli stessi anni, appunto Brunetto Latini. Come sostenuto da Miguel Asín Palacios e poi da Maria Corti, è probabile che quel testo sia giunto a Dante, non meno, su altro versante, che le versioni latine della Guida dei perplessi di Maimonide, ora studiate da Diana Di Segni. Non si tratta dunque di un calcolo di dipendenze, dalla cultura araba o da quella ebraica, ma della profonda unità delle tradizioni mediterranee, nel crogiolo e nella koiné universale del latino.
Quale che sia, per Brunetto, la funzione di tramite, quella di autore è certa: del Tesoretto è vivissima eco nell’incipit della Commedia, «nel mezzo del cammin» e «per una selva oscura» corrispondendo alla chiusa del secondo canto: «Pensando a capo chino, / Perdei il gran cammino, / E tenni a la traversa / D’una selva diversa» (II, 75-78). Così Brunetto si scontra, come Dante nella selva, con temibili fiere: «Ma tornando a la mente, / Mi volsi, e posi mente / Intorno a la montagna; / E vidi turba magna / Di diversi animali, / Ch’i’ non so ben dir quali: / Ma uomini, e muliere, / Bestie, serpenti, e fiere» (III, 1-8).
Così pari incipit segna Tesoretto, III e Inferno, VI: «Ma tornando a la mente» e «Al tornar de la mente»; e non meno l’insistente «quivi» di tante designazioni dantesche: «Quivi sospiri, pianti e alti guai» (III, 22) pari ai «Quivi non ha viaggio, / Quivi non ha persone, / Quivi non ha magione» del Tesoretto (XIII, 16-18).
Il seguito del poemetto ripercorre le giornate della Genesi, con simboli paralleli a quelli che torneranno nella Commedia; così la “valletta dei principi”, nell’Antipurgatorio, riprende spunto dal XIII canto del Tesoretto. Al canto XV viene annunciato il Tresor: «Ma chi le vuol trovare, / Cerchi nel gran Tesoro, / Ch’è fatto per coloro, / Ch’hanno lo cor più alto. / Là farò grande salto / Per dirle più distese / Ne la lingua Franzese»; infatti Li livres dou Tresor sarà scritto da Brunetto in lingua d’oil ed è una sorta di grande enciclopedia del sapere del tempo, quale Dante comporrà poi nei trattati del Convivio.
La fama di questo trattato Brunetto raccomanda, come unica cosa che gli resti cara, a Dante, quando tornerà tra i vivi: «Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora, e più non cheggio» (XV, 119-120). Si prolunga qui la penombra di malinconia che aleggia sul «nobile castello» degli «spiriti magni» nel canto IV e che risorgerà nel canto di Ulisse; la dignità e l’autorità del sapere che eleva sempre l’uomo, «in loco aperto, luminoso e alto», quale che sia il destino ultraterreno che lo attende. Così, soggiunge Dante, «m’insegnavate come l’uom s’etterna», secondo la lezione del Trésor: «Gloire done au proudome une seconde vie» (II, cxx 1), nonostante il luogo ove ora Brunetto giace e ove son puniti «e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci» (XV, 107-108).
È l’elogio incondizionato della poesia, al quale il Boccaccio, commentando questo canto nelle sue Esposizioni, renderà commosso omaggio: «La poesì, la qual solamente a’ nobili ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è apresa, non diriza l’appetito ad alcuna riccheza, anzi quelle, sì come pericoloso e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle celestiali invenzioni e esquisite composizioni, in quelle con ogni sua potenzia, ché l’ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome del suo divoto componitore». E nella poesia dei secoli Brunetto Latini è rimasto, per la struggente voce di T.S. Eliot, testimone dolente sulla pietra dura del male universale: «Colsi tosto lo sguardo d’un maestro morto / Conosciuto, obliato, in parte ricordato, / […] / Gli occhi avea d’uno spettro familiare, composito, / Intimo e pur non identificabile. / Così io assunsi un doppio ruolo, e gridai / E un’altra voce udii: “Come! Siete voi qui?” / […] / Concordi in quel momento d’intersezione, / Quel tempo d’incontrarci in nessun luogo, / senza prima né poi / Sul lastricato andammo in pattuglia di morti» (Quattro quartetti, 1942; Little Gidding, II).
I versi eponimi
«ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna di voi
quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna»
(Inferno XV, 82-85)
Fonte: Carlo Ossola – Avvenire.it
Immagine: “Daniele interpreta il sogno di Nabucodonosor” Pacino di Buonaguida, “Albero della Vita” – WikiCommons
Carlo Ossola – Critico letterario italiano (n. Torino 1946); professore di Letteratura italiana nelle università di Ginevra (1976-82), Padova (1982-88) e Torino (1988-1999). Dal 2000 è professore al Collège de France di Parigi, cattedra di Letterature moderne dell’Europa neolatina.