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In cammino con Dante 9 – Nella superbia di Ulisse la mortale follia dell’uomo

La lettura dell’eroe fornita dalla Commedia attraversa la storia della poesia: da Foscolo a Pascoli, da Saba a Eliot. È però dall’Ulisse di Kavafis che la contemporaneità dovrebbe trarre insegnamenti

L’«orazïon picciola» di Ulisse ai compagni nel canto XXVI dell’Inferno è uno dei monologhi più memorabili di tutte le letterature, un’esortazione all’oltre dello sperimentare e del conoscere: «Non vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol, del mondo sanza gente» (vv. 116-117), incitamento che è rimasto simbolo dell’inesauribile quête di senso che anima l’avventura umana. E tuttavia quel viaggio è viaggio di morte: «Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (verso finale del canto), poiché, dirà Dante in Purgatorio, III, 37, il proprio della condizione umana è la coscienza del limite: «State contenti, umana gente, al quia».

Non c’è contraddizione nella posizione di Dante: egli ereditava, in ciò, dalla tradizione classica sulla vana brama di Alessandro Magno di voler raggiungere i limiti del mondo, le frontiere estreme dell’orbe terrestre, secondo la Suasoria I di Lucio Anneo Seneca, il Retore; di fronte alla sete del conoscere: «Ora bramo sapere ciò che ignoro» sta il fatale limite dell’invarcabile: «Se anche l’Oceano si potesse navigare, non è tuttavia da solcare». È dunque follia infrangere l’interdetto: giudizio che Dante ribadirà al sommo del Paradiso: «Sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» (Par XXVII, 8283). Sebbene Onorio di Autun riporti criticamente la leggenda classica: «Ulisse è detto sapiente, perché poté varcare illeso i limiti», per opporgli la vera sapienza cristiana, Dante rovescia direttamente l’immagine, echeggiando il De planctu naturae di Alano di Lilla, ove compaiono, opposti, Ulisse e Aiace: «…diviene Ulisse / insipiente, Aiace del perder senno è cosciente»; la fonte è preziosa per il parallelo giudizio su Aiace, savio per aver preferito alla vita la dignità (proprio come Catone in Dante: cfr. Purg I, 71-72). La tradizione di questo alto mito ha prodotto nei secoli riscritture inobliabili, d’esilio e di sapienza, ritrovamenti dei patrii affetti e inconsolati addii; basti pensare al Foscolo e alla sua Zacinto, al ritorno per sempre negato: «[…] il diverso esiglio / Per cui bello di fama e di sventura / Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. // Tu non altro che il canto avrai del figlio, / O materna mia terra; a noi prescrisse / Il fato illacrimata sepoltura».

Tuttavia Giovanni Pascoli è il poeta che più intensamente ha meditato sul mito di Ulisse e sull’illusione di conoscere: nei Poemi conviviali, 1904, i XXIV movimenti – come nell’Odissea di Omero – di L’ultimo viaggio, si suggellano con Calypso, un tragico ritorno dell’eroe esanime, là ove fu invano accolto: «Era Odisseo: lo riportava il mare / alla sua dea: lo riportava morto / alla Nasconditrice solitaria, / all’isola deserta che frondeggia / nell’ombelico dell’eterno mare». In Il ritorno (da Odi e Inni, 1906) Odisseo è portato dai Feaci alla sua Itaca ma, giuntovi, non la riconosce: «Ahimè! / Che terra è questa? di qual gente? Oh forse, / che ignora il bene e che gli dei non teme! / Ad altra terra i così pii Feaci / m’hanno condotto, e sì dicean, gl’ingiusti, / di riportarmi ad Itaca serena».

Più di tutti tragici, i sette quadri di Il sonno di Odisseo (sempre dai Poemi conviviali) rappresentano l’eroe colto dal fatale sonno, in vista ormai di Itaca, allontanarsi da un ormai impossibile approdo: «E la nave radeva ora una punta / d’Itaca scabra. E tra due poggi un campo / era, ben culto; il campo di Laerte; / […] / era suo padre: ma non già lo vide / notando il cuore d’Odisseo nel sonno. // […] // Ed i venti portarono la nave / nera più lungi. E subito aprì gli occhi / l’eroe, rapidi aprì gli occhi a vedere / sbalzar dalla sognata Itaca il fumo; / e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso / ben cinto, e forse il padre suo nel campo / ben culto: il padre che sopra la marra / appoggiato guardasse la sua nave; / […] / la dolce casa ove la fida moglie / già percorreva il garrulo telaio: / guardò: ma vide non sapea che nero / fuggire per il violaceo mare, / nuvola o terra? e dileguar lontano, / emerso il cuore d’Odisseo dal sonno». Ne avrà memoria Umberto Saba, che di quel non approdo farà l’emblema della propria vita: «Nella mia giovinezza ho navigato / lungo le coste dalmate. […] / […] Oggi il mio regno / è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore» (Ulisse, da Mediterranee, conclusione del Canzoniere, 1948). Confluiva in questa visione la memoria di Dante e quella dei Quattro quartetti di T. S. Eliot, altro erede dell’Ulisse dantesco: «Gli uomini di età hanno da essere esploratori, / il qui e l’ora non importano / noi dobbiamo muovere ancora, e ancora / verso un’altra intensità / per un’unione più completa, una comunione più profonda» (East Coker, V). Quella «più profonda comunione» aveva legato per un istante, ma eterno, due destini nell’inferno dei campi di sterminio: «Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, […], qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…» (Primo Levi, “Il canto di Ulisse”, da Se questo è un uomo, 1947). Ciò che Levi ha testimoniato, attraverso Dante, non è stata la redenzione dell’inferno umano: Pikolo non viene liberato da Auschwitz dall’ascolto del “canto di Ulisse”; ma in esso l’Inferno, compreso, è trasceso e, in quella comprensione, vinto.

Dobbiamo augurarci che Ulisse non debba più essere memoria di un sacrificio entro le tenebre; che non chieda il nostro tempo altri eroi di derelizione e oblazione. Forse avremmo bisogno, per un avvenire di serenità anonima e placata, dell’Ulisse di Kavafis, di un viaggio modesto, senza giganti e senza smarrimenti, con la nostra fragile barca diretta al piccolo porto della vita: «Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fa voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze. / Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi / o Poseidone incollerito: mai / troverai tali mostri sulla via, / se resta il tuo pensiero alto e squisita / è l’emozione che ci tocca il cuore / e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi / né Poseidone asprigno incontrerai, / se non li rechi dentro, nel tuo cuore, / se non li drizza il cuore innanzi a te. / […] / Itaca tieni sempre nella mente. / La tua sorte ti segna a quell’approdo. / Ma non precipitare il tuo viaggio. / Meglio che duri molti anni, che vecchio / tu finalmente attracchi all’isoletta, / ricco di quanto guadagnasti in via, / senza aspettare che ti dia ricchezze. // Itaca t’ha donato il bel viaggio. / Senza di lei non ti mettevi in via. / Nulla ha da darti più» (Itaca). Nulla, se non quanto è in noi.

Terzina eponima​

«Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza»

(Inferno XXVI, 118-120)

Fonte: Carlo Ossola – Avvenire

Carlo Ossola – Critico letterario italiano (n. Torino 1946); professore di Letteratura italiana nelle università di Ginevra (1976-82), Padova (1982-88) e Torino (1988-1999). Dal 2000 è professore al Collège de France di Parigi, cattedra di Letterature moderne dell’Europa neolatina.

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