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«Signor giudice, io nego tutto, aiò
Lei è un uomo che ha studiato, aiò
Io non le ho mai detto: “Amore, tu mi manchi”
Io l’ho solamente urlato, aiò, aiò» .

Lui è Claudio Baglioni e non sappiamo se abbia mai assistito realmente ad una udienza in un’aula di tribunale, gremita di giovani rampanti e promettenti principini del foro oltre che da un Giudice “super partes” che, in assetto papale, è seduto dove campeggia la scritta “La legge è uguale per tutti”.

Intanto nega tutto, ogni addebito, per esigenze di metrica o di armonia musicale, lui, Claudio, nega, come negano gli imputati ogni addebito ad essi contestato. Le parti coinvolte, fossero pure parti offese, pure negano di aver avuto una qualunque responsabilità in questo processo esistenziale, il Pubblico Ministero pure nega che l’imputato possa essere non colpevole ed in ultimo, ma ultimo giammai, il Giudice nega, pure lui, di conoscere alcunché del procedimento e dichiara a pieni polmoni che la prova si forma in dibattimento, cioè, mo’, mo’, ora, ora.

Insomma una negazione collegiale dove tutti i presenti, nella migliore delle ipotesi, si guardano in cagnesco, nella peggiore si danno la schiena, giusto perché sia chiaro che la parte avversaria, mentre parla, non è degna di considerazione alcuna. Nel palcoscenico dell’aula di udienza tutti gli attori convenuti recitano il copione della loro vita, si dolgono di qualcosa e recriminano qualcos’altro, i legali si oppongono a tutto e la parte civile si costituisce in sordina, aspettando la fine dell’annosa querelle come un felino, che non mangia da una settimana e aspetta davanti ad una pescheria il momento propizio per addentare il pescato.

La prova si forma in dibattimento, non prima, non dopo, cioè, possiamo dire tutto quello che vogliamo e farci le ragioni con l’avvocato come se fosse un confessore a cui raccontiamo solo i peccati belli e giammai quelli da inferno, ma non c’è niente da fare, nelle nostre concitate conversazioni, negli studi dei difensori, al telefono con la vicina, su WhatsApp con l’amante, niente, la prova non è prova nemmeno se abbiamo le prove.

A meno che non la si formi in dibattimento. Nemmeno quelle più schiaccianti, nemmeno se i servizi segreti e il controspionaggio di Paperino, Qui, Quo e Qua hanno mobilitato Paperinopoli mettendo spie dappertutto. La prova si forma in quella dannatissima udienza e nemmeno la prima, forse la seconda, se tutto va bene nella terza, dove il dibattimento sarà dichiarato aperto, dopo le eccezioni delle parti, i vizi di notifica, le rinotifiche fatte a carico degli imputati e consegnate proprio a loro e non nelle zampe del loro animale domestico, e tutto l’ ‘ambarabaciccicoccò’ della giurisprudenza spiccia e i cavilli ad essa connessi.

E finalmente ci siamo, forse, al “dichiaro aperto il dibattimento” e ogni parte gioca l’azzardo delle bische neanche tanto clandestine, con scala 40 o full di assi o poker che sia. Questo vince e questo perde, fate il vostro gioco.

Sarà l’abilità dei biscazzieri, pardon, degli avvocati a dimostrare l’innocenza o la colpevolezza del cliente, e il giudice, sulla scorta della pellicola cinematografica esibita, stabilirà chi dovrà risarcire chi. Oppure no, spese compensate. L’abilità o la fortuna degli avvocati dimostrerà la verità, che prima o poi, udienza dopo udienza, stagione dopo stagione, prima o poi, dopo rinvii per astensione piuttosto che per pausa estiva o covid, impedimenti vari, legittimi o non, meritevoli di essere accolti, emergerà. E sarà una grande mongolfiera, sgonfia.

Verità processuale, in tutta la sua pomposità, che ovviamente poco ha a che vedere con la verità storica, quella a lettere minuscole, spesso sottaciuta perché poco o per nulla credibile.

“Io non le ho mai detto amore tu mi manchi, gliel’ho solamente urlato”.

La verità di vita reale, quella vissuta fuori dall’aula di udienza, non verrà mai fuori, e ora che la normativa impone l’uso della mascherina fin sopra le occhiaie di notti insonni e sensi di colpa malcelati, sarà ancora più difficile osservarla e verbalizzarla nel verbale fono registrato. Alle cuffie, passando dall’hard disk, quella verità non arriverà mai, nemmeno se riavvolgiamo il nastro, men che meno se lo riascoltiamo a velocità ridotta.

Eppure con la calura di un’estate sopraggiunta troppo in fretta, come sempre accade, i condizionatori rotti, come sempre succede, complice l’afa, la stanchezza e il disincanto, non è difficile osservare il fermo immagine della commedia che va in scena. Gli occhi sono nudi da ogni mascherina, guardano sempre altrove, in basso, nel vuoto, a destra per inventare, a sinistra per ricordare, in basso per cancellare dalla memoria la paura di aver paura. Sembra che riguardino le ferite mai rimarginate che si riaprono quando il legale della controparte incalza e che, per non farle sanguinare, almeno non davanti a tutti, ci si dia un tono di puntigliosità, di strafottenza qualche volta, di difesa ringhiosa, oltre la quale non si consentirà più a nessuno di penetrare.

E poi le verità: quelle non credute perché non hanno abbastanza forza e vigore, quelle costruite perché fanno più scalpore. Nel mentre la farraginosa macchina della giustizia si muove e cigola macinando ruggine, passato e affetti, ricordi ed emozioni, nessuno che,  silente, si scopre ad osservare meglio i volti, le maschere, gli attori e si chieda in quanto tempo sono riusciti tutti a dimenticare che dietro ai volti di circostanza c’è un’anima, un passato, una storia.? Nessuno davvero? Nemmeno la segretaria dell’avvocato che esibisce la parcella perché il principe del foro non parla del vile denaro? Nemmeno l’addetto alle notifiche, quello che avvisa quando e se si terrà l’udienza? Neanche il ragazzo del bar che porta il caffè negli uffici quando il tempo non consente di sospendere pochi minuti?  Quanto ci abbiamo messo per arrivare fino a qui? Quanti momenti preziosi abbiamo immolato sull’altare dell’orgoglio per farci giustizia ed a quanti ricordi abbiamo rinunciato? Quante ore, giorni, mesi, anni ci abbiamo impiegato e quante querele, quanti scarabocchi, litigi, incomprensioni e rancorose recriminazioni per arrivare a questa puntata il cui esito lo scopriremo sempre nella prossima estenuante, frustrante, spossante puntata, o rinvio di udienza, che dir si voglia, salvo che poi non intervenga la prescrizione e a quel punto la partita termina zero a zero e senza supplementari né calci di rigore. Zero a Zero, palla al centro e tutti negli spogliatoi a smacchiarsi la coscienza, arbitri compresi, uscieri non esclusi.

Quel pallone al centro è il protagonista che resta quando i riflettori si smorzano, i portoni si chiudono e il fascicolo finisce la sua corsa in archivio. Sarà lui il protagonista, quello che resta quando “l’udienza è tolta”, quando le luci si spengono e l’aula si svuota. E’ quello che rimane anche dopo che la signora delle pulizie ha svuotato i cestini e trascina il carrello da una parte all’altra del corridoio. Non lascia le impronte, nemmeno se fuori piove, il protagonista. Non passa la mano sotto al dispenser per disinfettarsi. Non perché non ne abbia bisogno, ma perché un disinfettante che tolga via tutte le impurità sin qui accumulate, ancora non lo hanno inventato. Uno smacchiatore di anime non lo vendono nemmeno su amazon (volutamente scritto in minuscolo), dove generalmente trovi tutto.

Il vero, l’autentico protagonista è il perdente. Lo sconfitto, il soccombente. Quello che tra le parti convenute, sotto le macerie di una vita fatta a brandelli, ha perso l’intimità domestica, i segreti del cuore, la complicità di chi, fino a qualche tempo prima, apparteneva al suo vissuto; le interiorità di un mondo che un tempo era il suo centro, il suo vissuto, il suo tutto. Suo, appunto e non della comunità, dei giornali, dei chiacchiericci, fonte di impudicizia da bar piuttosto che pattume da discarica cartacea. Il perdente è quello sul quale il Giudice scriverà questo o quell’articolo, violato, ma anche non violato e fosse pure per non aver commesso il fatto, il perdente resterà colui il quale avrà perso una parte di mondo, nel tragitto da casa al Tribunale, ogni volta che varca la soglia di quell’aula, ogni volta che esce di casa. È quello a cui volta per volta, verrà meno un pezzo di vita, quale che sia il lato dal quale siede, torto o ragione ha poca importanza.

In nome del popolo italiano se siamo arrivati fin qui, a guardarci in cagnesco come se non avessimo mai condiviso sorrisi, emozioni, vissuti, affetti, amicizie o anche solo relazioni lavorative, siamo tutti perdenti sotto la stessa scritta la legge è uguale per tutti. Infatti, perdiamo tutti allo stesso modo, anche chi viene risarcito, stia sicuro che perde.

 “E allora stiamo ancora zitti perché così ci preferiscono
Tutti zitti come cani che obbediscono
Ci vorrebbe più rispetto
Ci vorrebbe più attenzione
Se si parla della vita
Se parliamo di persone

Siamo il silenzio che resta dopo le parole
Siamo la voce che può arrivare dove vuole
Siamo il confine della nostra libertà
Siamo noi l’umanità
Siamo il diritto di cambiare tutto e di ricominciare”
(Il peso del coraggio di Fiorella Mannoia)

Se solo riflettessimo sul “cosa resterà di noi, nel transito terrestre, di tutte le impressioni, che abbiamo in questa vita” (Battiato) forse potremmo anche cambiare la prospettiva e decidere di uscire di scena prima che il sipario del tribunale riapra per una nuova puntata. Fare un passo indietro, anche due, per prendere la rincorsa ed andare a riprendersi la propria vita sottraendola a chi la vuole passare al microscopio mentre c’è chi con quei vetrini da laboratorio si arricchisce e chi invece ci si taglia l’anima.

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