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“Nonna ma se ti stanchi così tanto, perché lo fai?” – “pe devozion bell è nonn”.

Non ero né convinta né persuasa, ma accettavo la risposta alzando le spallucce come un atto di fede o qualcosa che gli somigliava e, del resto, se lo diceva la nonna era verità anche se non la capivo; e se anche chiedevo il perché, la risposta salomonica “perché sì” sentenziava la fine di tutti i “ma” e tutti i “se” che si erano già messi in fila per uscire.

E così ogni anno, puntualmente, ricompariva lo stesso rito di fare le cose, la stessa anima spesa nel farle e le stesse successive recriminazioni per l’impiego di tutte le energie, il dare fondo al poco tempo a disposizione, il sudare, lavorare, ansimare, sbuffare, chiedersi dove è finito tizio, minacciare caio che se solo si avvicina alla fine dell’impresa “ave pur o riest” e concludere la titanica impresa con la solennità di sempre “mai più, croce nera, mai più”….i romani direbbero “me possino cecamme se lo faccio n’artra volta” ma la nonna era più sacrale, ci metteva quella croce il cui nero poi sfumava col passare del tempo, delle stagioni, degli umori e ritornava a essere una bella croce, senza grigi di ombre, né aspettative disattese, che tutto sommato si poteva ancora portare, adornare, ammirare. Non fosse altro che per devozione. O per sentirsi dire, con la finta modestia di chi questa volta ha toppato, “questa cosa non ti è mai venuta così bene come ora!”. Ed ogni anno era la stessa cosa.

La devozione poteva essere legata, come spesso era, ad una festa religiosa in onore del Santo patrono a cui si addebitavano i gusti culinari del popolo, quindi per esempio, in occasione della Madonna di Costantinopoli, la devozione era che in un determinato giorno, tra quei giorni di festa dove era d’obbligo cucinare a base di pesce, si doveva preparare, friggere, offrire le polpette di baccalà. Era una conditio sine qua non, non erano ammesse repliche, tuttalpiù un austero “quando le fai?” e giammai un “ma quest’anno le fai le polpette di baccalà?”. Un anatema il solo pensarlo, e in luogo del pensiero che prendeva la forma del killer e avrebbe voluto dire “da quale pulpito, non le hai mai sapute fare”, la nonna si trincerava dietro un sornione “mo’ vediamo, dipende da come mi sento”.

Ma devozione era anche preparare, con veloce garbo, un tavolo in giardino, recuperare lenzuola candide e profumate, conservate per l’occasione, (che tanto, prima che tua zia si marita, hai voglia di processioni) e cesti di petali di fiori, rigorosamente freschi perché la Madonna, durante la processione, si fermava a riposare nel nostro cortile e nell’occasione noi bambini affondavamo le mani nei petali che sembravano di seta profumata e li facevamo volare verso la statua, con abbastanza forza perché il tiro non fosse un flop e i petali non ci cascassero sui sandali nuovi, con abbastanza grazia perché non sembrasse una guerra da trincea a chi lancia prima e più lontano le bombe ad acqua.

Anche in occasione della Madonna di Materdomini c’era una devozione culinaria, la “palatella mpupat” che richiedeva lunga preparazione sia di palatella (pane a forma di caramella) sia di imbottitura che nel caso specifico erano melenzane sotto aceto più che sott’olio. “Mangia a nonna”, “ma è acetosa, non mi piace”, “ma è devozione”.

E si chiudeva un’era fatta di lunghe fila di piantine seminate nel terreno coi solchi creati ad arte, simmetrici e dritti, paralleli e mai storti (ma come faceva il nonno rimarrà un mistero), di serate ad annaffiarle sennò seccano con questo sole, di fili d’erba infestante tolti ad uno ad uno, accovacciati, “voi tenete le mani piccoline, subito fate” e attenzione a non sradicare la pianta!

E poi la raccolta, la sbucciata di massa che faceva impallidire le mense aziendali e la sacralità dell’affettarle: non troppo grandi, non troppo piccole, non troppo spesse e non troppo sottili….e la povera nonna alla fine finiva per toglierci da mano taglieri e coltelli affilati e lo faceva lei, perché nessuno di noi aveva nelle mani la misura che lei aveva ormai impressa nelle rughe delle dita ed il coltello che sembrava avere il pilota automatico tanto che tagliava i pezzi di melenzana simili tra loro, pur guardando altrove o parlando con chi era presente. E si raccontava, di aneddoti, di inciuci, di torti subiti e di riavvicinamenti misericordiosi. Il tempo della festa, poi si riprendevano le incomprensioni di sempre che si autoalimentavano nel tempo, nelle stagioni per poi sfumare nuovamente alla prossima ricorrenza. Per devozione.

I vari passaggi tra sotto sale e aceto e spezie da condimento sono solo dettagli che ornano i movimenti lenti e cadenzati, di pomeriggi lunghi e ripetitivi nel preparare una cosa che in un paio di ore si sarebbe esaurita nelle fauci dei distratti avventori.

La “mpupata” era contenuto e contenitore, era il preparare e il consumare, era il prima e il durante di un evento ma soprattutto era l’esserci, sempre, in presenza di spirito e di fisico. Era una creazione di mani sapienti, fragili e nerborute, sagge e apparentemente stanche, qualche volta tremanti ma sempre solide ed antiche.

Nel tempo, chi tra noi non gradiva il gusto intenso dell’aceto, ripiegava su altra devozione, fatta di palatella (che era il pane) che da fuori si vedesse la forma, ma dentro avevamo imparato a nascondere quello che capitava, dal proibitissimo prosciutto ai sottoli senza aceto. E così partecipavamo anche noi alla devozione ma senza storcere il muso mentre i grandi invece si leccavano i baffi in una sorta di estasi in contemplazione più del panino e della nonna che lo aveva messo in tavola, che della Madonna.

Per devozione si facevano le gite fuori porta a questo o quel santuario sui monti, e per devozione si preparava (anche lì) il particolare cibo che la circostanza richiedeva.

Si benediceva l’auto appena comprata per devozione, o il lavoro appena guadagnato, per devozione, si faceva un particolare sacrificio per devozione e insomma alla fine di una domanda sul perché di tanto affannarsi se poi alla fine vi era nascosta la paventata ingratitudine, laddove risposta plausibile non c’era, la nonna si giocava il jolly “per devozione”.

Spesso però, il termine veniva usato anche senza Santi nei paraggi, senza ricorrenze, né feste di paese e questo alla fine restava il modo migliore e quello più permeato di devozione per intendere il fare una cosa che richiede fatica in ogni caso, in qualunque circostanza e anche in assenza di una valida motivazione. La devozione stessa diventava motivazione e forza motrice dell’impegno profuso.

Nello scorrere del tempo ho iniziato a farci caso, tante cose venivano fatte e l’aiuto di noi bambini veniva preteso, per devozione. Si raccoglievano le noccioline da far seccare al sole o si sceglievano le foglioline di basilico da infilare nei colli di bottiglia per il rito della passata di pomodoro, che sugellava l’esser cresciuti, poiché ci si alzava all’alba e se i grandi consentivano di farci alzare quando il sole ancora non era sorto, allora voleva dire che stavamo per lasciare l’età del “è piccirill, lasciamolo dormire”.

Oggi osservo le mani che infilano i pomodorini lasciati essiccare al sole, al cui tramonto vengono rientrati ed ogni giorno la stessa litania fino a quando non sono pronti per diventare collana. Le stesse melenzane di un tempo, che vanno a rimpinguare le provviste invernali, oggi vengono approcciate con devozione, forse per un tempo che fu, forse per la nostalgia di quando non c’era youtube per vedere come si fa; ancora oggi le marmellate, che poi non piacciono a nessuno, ma, guarda caso, in inverno evaporano come neve al sole, vengono create con quella devozione di chi un tempo non aveva il robot da cucina, e ne conserva la pazienza, la meticolosità e la devozione di un tempo.

Devozione che oggi è qualche volta, un attitudine, uno stile di vita, una preghiera continua, una meditazione, in uno stato di gratitudine, fosse anche solo per l’esserci, perché se è vero che fare una cosa necessaria può sembrare noiosamente ripetitivo ed apparentemente inutile oltre che dispendioso, è altrettanto vero che farla ancora e ancora e ancora, mantiene in vita quel filo di devozione che il tempo non spezza e che, forse, rinsalda, per la mancanza di un tempo per riflettere, meditare, pregare. Con devozione.

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