L’incontro con figure di padri putativi, esempio di accoglienza e responsabilità
Di diventare insegnante l’aveva deciso già da ragazzo, che cosa significasse veramente lo ha scoperto un po’ di tempo dopo. «Mentre stavo preparando una lezione a casa – ricorda Franco Nembrini –. A un certo punto si è avvicinato il primo dei miei quattro figli, che allora avrà avuto cinque o sei anni. Si è accostato in silenzio, mi sono accorto della sua presenza solo quando ho alzato gli occhi e ho incontrato i suoi, che emergevano dal bordo della scrivania. Non si vedeva altro, solo quello sguardo, seguito poco dopo da un sorriso.
Ecco, penso di essere diventato padre in quel momento, grazie alla domanda che ho colto in quegli occhi. Era come se mio figlio mi stesse dicendo: “Papà, assicurami che ne vale la pena, non farmi mancare la speranza di cui ho bisogno”. Da allora è cambiato anche il mio modo di insegnare. Ogni volta che entravo in classe non potevo non scorgere la stessa richiesta negli sguardi dei ragazzi e delle ragazze che avevo davanti».
Classe 1955, bergamasco di Trescore Balneario, Nembrini è un narratore nato. Un’attitudine che, negli anni, ha messo in particolar modo al servizio di Dante, divulgando la Divina Commedia in mezzo mondo e con ogni strumento. Conferenze, libri, trasmissioni televisive. In questi giorni sta ultimando l’intervento con il quale presenterà al Meeting di Rimini il suo commento al Paradiso nell’edizione Mondadori illustrata da Gabriele Dell’Otto (l’appuntamento è per martedì 24 agosto alle ore 21). Il 15 agosto, giorno dell’Assunta, è anche il suo compleanno. «Maternità e paternità sono complementari tra loro – sottolinea – e condividono lo stesso compito: dare certezza della bontà della vita».
Come suo solito, Nembrini parla per esperienza, non solo da studioso. «Anche se poi, volendo, un po’ di filosofia la so tirar fuori anch’io – scherza –. Ha presente Kant, la faccenda dello “stato di minorità”? Bene, comincia tutto da lì, più o meno due secoli fa, quando l’uomo moderno si convince di essersi ormai emancipato dal Padre Eterno e, di conseguenza, prende d’assalto l’autorità del padre terreno.
Il passaggio successivo, del quale siamo testimoni oggi, è la contestazione della paternità fisiologica. La situazione attuale è descritta molto bene da una famosa battuta di Woody Allen: “Dio è morto, Marx anche e anch’io non mi sento troppo bene”. Non potrebbe essere altrimenti. Dopo essersi sbarazzata di Dio, che è il Padre celeste, la modernità ha deciso di fare a meno dei padri ideologici, rappresentati da Marx. Il disagio odierno deriva da queste premesse. E la scuola, purtroppo, è stata il laboratorio in cui l’esperimento è stato portato a termine».
Anche se da qualche tempo «vive di assembramenti», come gli piace dire, nella scuola Nembrini ha lavorato a lungo. Oltre a essere stato fondatore e rettore del centro La Traccia di Calcinate, ha insegnato a lungo negli istituti pubblici. «Per decenni era come se nel collegio docenti il primo punto all’ordine del giorno fosse sempre lo stesso: convincere i professori a rinnegare la loro responsabilità educativa – sostiene –. Ci si doveva limitare a trasmettere competenze, quali che fossero, dalla lingua inglese all’informatica.
A fare da padre e da madre ci avrebbe pensato qualcun altro. Peccato che questo accadesse mentre la famiglia andava in pezzi. Peccato, aggiungo, che quello tra un adulto e un bambino sia sempre e inevitabilmente un rapporto educativo. Non importa se fai il gelataio o il maestro, nella sostanza il tuo dovere nei confronti dei più piccoli non cambia». La pandemia, secondo Nembrini, ha rappresentato un punto di svolta. «L’insofferenza crescente verso la didattica a distanza ha reso evidente il fatto che la scuola non è soltanto il luogo delle competenze trasmesse per via tecnologica – afferma –.
Ora che questa menzogna è stata smascherata, viene il tempo di valorizzare nuovamente la dimensione educativa dell’insegnamento, nella quale si manifesta la paternità dell’insegnante. Che è sempre una specie di padre putativo, è vero, e proprio per questo deve vigilare per non sostituirsi al padre dei ragazzi ai quali si rivolge». Un crinale molto delicato, sul quale lo stesso Nembrini si è trovato più di una volta. «Occorre conservare la consapevolezza della diversità dei ruoli – ribadisce –. Essere padre non è lo stesso che essere maestro, psicologo o sacerdote. Ma l’orizzonte educativo resta immutato, questo è il punto.
A volte penso di essere stato doppiamente avvantaggiato nel mio lavoro. Perché ero padre, anzitutto, e poi perché insegnavo una materia umanistica, l’italiano, che mi dava continuamente occasione di interrogarmi insieme con la classe sulle questioni fondamentali dell’esistenza. Si può essere educatori straordinari anche se si insegna matematica, e ci sono sacerdoti che sull’argomento la sanno più lunga di molti padri. Senza dimenticare che in passato, in Italia, quella della maestra era una professione raccomandata alle nubili».
La paternità dell’insegnante è di origine diversa rispetto a quella del padre di famiglia. «Sgorga dalla fratellanza – spiega Nembrini – e nella fratellanza si compie. In questo senso, prima ancora che a capire i ragazzi e le ragazze, la mia condizione di padre mi ha aiutato a intuire subito e a comprendere meglio il dramma di tanti genitori che appaiono disarmati davanti alle richieste dei figli. I quali, a loro volta, sono spesso gli stessi che durante le lezioni fanno emergere in maniera più lancinante il desiderio di essere accolti e guidati. Ti guardano con quello sguardo che non si può dimenticare, come se dicessero: “Ti prego, siimi padre”. Una delle tragedie della nostra epoca sta in questo senso di orfanezza diffusa, in questa mancanza di riconoscimento che si fa sempre più insistente di anno in anno.
Ferite così profonde non si curano affidandosi alle regole, la saggezza suggerisce di valutare caso per caso, cercando di capire fin dove è opportuno spingersi e quando, invece, è il momento di farsi indietro. Non c’è delitto educativo peggiore di quello che arriva a separare il figlio dai genitori. Al contrario l’insegnante, nel suo ruolo di padre putativo, deve accompagnare alla riscoperta del padre da parte del ragazzo, magari facendosi suo complice nella ribellione, almeno in una prima fase, ma sempre con l’obiettivo che quella ribellione si sciolga in un abbraccio».
Nembrini si è occupato ampiamente di questi temi in un libro pubblicato una decina di anni fa da Ares, Di padre in figlio, ma ogni volta che affronta uno dei suoi amati classici il nodo della paternità torna sempre allo scoperto, si tratti dei Promessi Sposi o del Pinocchio di Collodi riletto nella prospettiva del cardinal Biffi. E la Divina Commedia? «Le prime due cantiche – risponde – corrispondono alla lenta costruzione della figura paterna di Virgilio, che si presenta come colui che, dando un nome alla realtà, prende la parola e la consegna a Dante». Che questo miracolo del linguaggio avvenga nel segno del taciturno san Giuseppe è uno degli inesauribili misteri che nella paternità si nascondono.
di Alessandro Zaccuri – Avvenire