« Venite in pellegrinaggio alla Chiesa del Marocco !» L’invito del Cardinale di Rabat, Cristóbal, al Convegno Migrantes di fine agosto a Loreto era forte e seducente. Tre ore di volo, dunque. Ed eccomi in Marocco, all’aeroporto della capitale: lui stesso, sorridente come sempre, è già da tempo in attesa… Zigzagando, poi, tra il traffico marocchino, mai troppo ordinato, mi porterà a Casablanca dalle missionarie di Madre Teresa di Calcutta : è la loro festa liturgica. Viene ad aprire la porta una donna scura con un piccolo in braccio, accanto un’altra con un pancione di ben 8 mesi. Le ritroviamo tutte, poi, in cappellina, una dozzina di ragazze-madri, rifiutate dalle famiglie, ma accolte dalle suore di Madre Teresa. Sì lei, « la matita di Dio » – come lei stessa amava definirsi – sapeva scrivere il poema della tenerezza per gli ultimi. Sono qui accolte a una sola condizione : tenersi il bambino. Accogliere la vita. E dico tra me e me : « Non vi è tappa migliore per i primi passi di questo pellegrinaggio… »
Domenica, ore 11.00, messa solenne alla Cattedrale, maestosa costruzione bianco-latte, con due torri-minareto in fronte. Il popolo di Dio, una cinquantina di nazionalità, si distende nella navata come un’enorme onda nera. C’è chi viene perfino dall’isola di Kiribati – mi specifica Père Daniel, il parroco – l’isola ormai destinata a scomparire sotto l’oceano, con i cambiamenti climatici in atto, a soli 8 metri s.l.m. « Qui noi ci sentiamo veramente cattolici! » conclude, deciso. La corale degli studenti subsahariani, intanto, anima la celebrazione con una coralità polifonica bella, intensa e potente. Alla fine, per gli avvisi a tutto questo popolo in tempo di pandemia, il Cardinale ne articola lentamente l’ultimo, come una preghiera o una raccomandazione originale: « Signore, di’ una sola parola e noi saremo salvi… » «Vaccinatevi ! »
È, per davvero, un pellegrinaggio, questa visita. Si entra nei luoghi di santità della porta accanto, nella vita quotidiana dei discepoli del Signore in terra d’Islam. Di Lui, mostrano concretamente il suo volto: l’amore. Gratuito, intero, disinteressato. L’amore per i poveri e per i tantissimi migranti di qui. Come Tommaso, mettono il loro dito nelle ferite del corpo del Cristo. Anzi, mettono interamente se stessi. Una Chiesa piccola, umile, povera, fragile, buona samaritana, luce e sale per questa terra musulmana. Perdendosi, come il lievito, in questa umanità. Sacramento del dialogo e dell’incontro. Appassionata della fratellanza con tutti. E che ogni mattina, sembra ripetere a se stessa con il profeta Michea, all’alzarsi dell’alba : «Cammina umilmente con il tuo Dio! »
Così, con otto ore di bus lungo tutta la notte arrivo al monastero Notre Dame de l’Atlas dei monaci di Tibhirine, sull’altopiano. Sono le 4 del mattino, il tempo della loro prima preghiera. Si snoda tranquilla tra l’arabo e il francese, come camminando sul confine di un mondo e un altro, di una cultura, una religione e un’altra, ben diverse, immensamente differenti. Poi, a metà mattinata eccoci a prendere tutti insieme il thé con gli operai musulmani del monastero. Un monaco mi soffia, discreto, all’orecchio : « È la mia seconda eucarestia! » E vedendo come per mezzo di un semplice pezzo di pane e del thé quale senso di comunione egli respira con questo mondo, con tutto un popolo, non stento a credergli. Toccante, poi, la visita al memoriale dei sette monaci martiri di Tibhirine con i loro oggetti, lettere, vestiti. In particolare, trovare esposta la loro prima professione religiosa, firmata da ognuno, cioè il loro primo passo verso la morte. Anzi, verso il dono completo di sè. La « sala del capitolo » è un semplice tavolo con sette sedie vuote… Ma è proprio quello, attorno al quale prendevano tutte le loro decisioni. Come quella, tremenda, di restare fino alla fine su questa terra martoriata. Anche se la morte sicuramente, un giorno, vi incontrerà… Incontro Jean Pierre, il sopravissuto, ormai 98enne. Gli chiedo quale mano il papa gli ha baciato… Sorride, non parla più.
Infine, ancora molte ore di bus e raggiungo Oujda, ai confini con l’Algeria. La parrocchia è circondata da postazioni di polizia per la vicinanza del palazzo reale. Davanti, un gruppo numeroso di giovani migranti subsahariani dal Mali, Gambia, Guinea… sta parlottando tra loro, chi con un braccio fasciato, chi una gamba… La parrocchia vi appare subito un autentico «ospedale da campo ». Un’oasi di fraternità sorprendente. Provvidenziale. Passato il deserto, essi crollano di stanchezza appena arrivati, li trovate a dormire sul tappeto dell’altare, dappertutto. Sembra di udire in fondo all’anima parole di Vangelo : « Non aver paura, sono io… sono io, straniero, migrante, che voi avete accolto ! » Un’emergenza umanitaria, per cui si accolgono decine e decine di giovani migranti, percossi, fratturati o torturati dalla polizia algerina, marocchina o altri. Partono e arrivano di continuo, anche di notte, rimanendovi solo qualche giorno. Qualcuno ha già tentato inutilmente la scalata dei sette metri di barriera con la Spagna. Ve lo spiega, calmamente, mostrandovi le grandi ferite per la caduta: ha preparato gli uncini di ferro battuto per giorni, ha messo lo scotch per non ferirsi le mani, ha atteso per giorni e giorni il momento… Appena si rimetterà in sesto, ritenterà. « Ma per noi non c’è altra scelta ! » si lascia sfuggire uno di loro, con tristezza. “Dopo tutte queste prove e traumi sono bravi a non perdere la testa!” mi fa un responsabile. Purtroppo, non è vero per tutti, alcuni psicologicamente crollano. Altri decidono di fermarsi qui.
« La loro colpa è di voler vivere, vivere una vita degna ! » affermava un vescovo marchigiano, recentemente. Ma quale colpa è mai questa?!
« A uno straniero non chiedere mai il suo luogo di nascita – scriveva Edmond Jabbès – ma il luogo del suo avvenire. » Oh sì, la libertà, la dignità, la vita…
di Renato Zilio – Direttore Migrantes Marche