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Quando la Chiesa si ferma si ammala

Il viaggio del Papa in Ungheria e Slovacchia

Quando la Chiesa si ferma si ammala. Quando i vescovi si fermano, ammalano la Chiesa. Quando i preti si fermano, ammalano il popolo di Dio. Quanto i vescovi e i preti si fermano ammalano il popolo di Dio”. Papa Francesco pronuncia queste parole a braccio, nell’omelia della messa celebrata nel santuario di Sastin, dove è venerata la Madonna dei Sette Dolori, patrona del Paese. E le parole del successore di Pietro, nella sua ultima tappa in Slovacchia, suonano come una consegna non solo per la Chiesa locale.

Davanti a circa 60mila persone, Francesco esorta a vivere una fede come quella di Maria, che si mette in cammino: “Vincete la tentazione di una fede statica, che si accontenta di qualche rito o vecchia tradizione, e invece uscite da voi stessi, portate nello zaino le gioie e i dolori, e fate della vita un pellegrinaggio d’amore verso Dio e i fratelli”. Perché “non si può ridurre la fede a zucchero che addolcisce la vita”: “Davanti a Gesù non si può restare tiepidi, con il piede in due scarpe”.

La Slovacchia, come il resto dell’Europa, ha bisogno di profeti: “Non si tratta di essere ostili al mondo, ma di essere segni di contraddizione nel mondo. Cristiani che sanno mostrare, con la vita, la bellezza del Vangelo. Che sono tessitori di dialogo laddove le posizioni si irrigidiscono; che fanno risplendere la vita fraterna, laddove spesso nella società ci si divide e si è ostili; che diffondono il buon profumo dell’accoglienza e della solidarietà, laddove prevalgono spesso gli egoismi personali e collettivi; che proteggono e custodiscono la vita dove regnano logiche di morte”.

Quando la fede si fa compassione, “diventa condivisione di vita verso chi è ferito, chi soffre e chi è costretto a portare croci pesanti sulle spalle. Una fede che non rimane astratta, ma ci fa entrare nella carne e ci fa solidali con chi è nel bisogno. Questa fede, con lo stile di Dio, umilmente e senza clamori, solleva il dolore del mondo e irriga di salvezza i solchi della storia”.

Le parole più amplificate dai media vengono dalla Divina Liturgia bizantina presieduta a Presov: “Non si contano i crocifissi: al collo, in casa, in macchina, in tasca. Ma non serve se non ci fermiamo a guardare il Crocifisso e non gli apriamo il cuore, se non ci lasciamo stupire dalle sue piaghe aperte per noi, se il cuore non si gonfia di commozione e non piangiamo davanti al Dio ferito d’amore per noi. Se non facciamo così, la croce rimane un libro non letto, di cui si conoscono bene il titolo e l’autore, ma che non incide nella vita.

Non riduciamo la croce a un oggetto di devozione, tanto meno a un simbolo politico, a un segno di rilevanza religiosa e sociale. La croce non vuole essere una bandiera da innalzare”.

Le immagini che hanno fatto più di tutte il giro del mondo sono quelle della visita al Centro Betlemme di Bratislava, gestito dalle Suore di Madre Teresa nel quartiere “Lunik IX”, che ospita la più numerosa comunità Rom slovacca:
“Nessuno nella Chiesa deve sentirsi fuori posto o messo da parte.

Nessuno tenga voi o qualcun altro fuori dalla Chiesa! siete benvenuti, sentitevi sempre di casa nella Chiesa e non abbiate mai paura di abitarci. Troppe volte voi siete stati oggetto di preconcetti e di giudizi impietosi, di stereotipi discriminatori, di parole e gesti diffamatori. Con ciò tutti siamo divenuti più poveri, poveri di umanità. Quello che ci serve per recuperare dignità è passare dai pregiudizi al dialogo, dalle chiusure all’integrazione”.

Nel suo pellegrinaggio nel cuore dell’Europa, il Papa parla all’intero continente. Già nel primo discorso in Slovacchia il riferimento è alle sorti dell’Europa “Come possiamo auspicare un’Europa che ritrovi le proprie radici cristiane se siamo noi per primi sradicati dalla piena comunione? Calcoli di convenienza, ragioni storiche e legami politici non possono essere ostacoli irremovibili sul nostro cammino”. “Essere un messaggio di pace nel cuore dell’Europa”, l’imperativo assegnato al Paese nell’incontro con le autorità. “Trovare nuovi alfabeti per annunciare la fede”: è questo “il compito più urgente” non solo in Slovacchia, ma “presso i popoli dell’Europa”, dice Francesco incontrando i vescovi nella cattedrale di San Martino: “La Chiesa non è una fortezza, un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. Il centro della Chiesa non è la Chiesa!”.

Come a Budapest, anche nella seconda tappa del viaggio l’incontro con il Consiglio ecumenico delle Chiese e con la comunità ebraica occupano un posto privilegiato. “Siamo uniti nel condannare ogni violenza, ogni forma di antisemitismo, e nell’impegnarci perché non venga profanata l’immagine di Dio nella creatura umana”, l’appello dalla Piazza Rybné namestie di Bratislava, che fa eco a quello a disinnescare la miccia dell’antisemitismo lanciato a Budapest.

“Qui il nome di Dio è stato disonorato – il mea culpa nel luogo dove fino agli Anni Sessanta esisteva una sinagoga e ora c’è un memoriale dell’Olocausto – perché la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri. Qui, davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da questo affronto tragico e inenarrabile, ci vergogniamo ad ammetterlo: quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: ‘Dio è o noi’; ma erano loro a non essere con Dio”.

Bagno di folla per l’incontro con i giovani: arrivano in 30mila allo Stadio Lokomotiva di Kosice, e il Papa dialoga con loro immergendosi nella loro realtà: “Disconnetterci dalla vita, fantasticare nel vuoto, non fa bene, è una tentazione del maligno. Dio ci vuole ben piantati per terra, connessi alla vita; mai chiusi, ma sempre aperti a tutti! Radicati e aperti”.

Fonte: M.Michela Nicolais – Sir

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