L’arte di sovvertire il “subvertising” pubblicizzando il silenzio
Era un termine di cui ignoravo l’esistenza, forse per la mia naturale avversione a tutto ciò che condiamo con il maccheronico inglese in luogo del nostro più che esaustivo italiano.
Quando invece di crasi per tradurre l’inglesissimo “subvertising” ho letto crisi, ho pensato potesse significare solo una cosa, escludendo un problema di lenti appannate, diottrie in caduta o errori di stampa: che l’inconscio è sempre tanto più saggio di noi, mediocri funamboli in cerca di scuse e liceità dozzinali. L’inconscio legge “crisi” invece di crasi e si racconta la sua storia, rispetto a quella degli artisti, che si sentono incompresi, del PAN, il Palazzo delle Arti di Napoli che in questo momento li ospita. L’inconscio sa che c’è crisi, la respira ovunque, la percepisce in ogni angolo curvo del globo e in qualunque aspetto di questo pazzo vivere oggi. E però sa anche che una vocale non cambierà lo stato d’animo, già refrattario di suo rispetto alla fusione di vocali, oggi ancor di più refrattario ad ogni genere di espressione che evochi il bello. E non parliamo né di genere maschile, né di genere femminile, sovvertiamo la grammatica e ne inseriamo uno nuovo, vecchio come il mondo, parliamo di genere: bello.
-subvertising Termine derivante dalla crasi dei vocaboli anglosassoni subvert (sovvertire) e advertising (pubblicità), indica la pratica di “vandalizzazione creativa” di manifesti pubblicitari-
Stiamo ancora inchiodati a chiederci cosa mai ci sarà di creativo nella vandalizzazione di checchessia e cerchiamo in qualche vicolo cieco dei nostri ricordi di educazione artistica un appiglio, magari un concetto spiegato quando abbiamo fatto “filone” a scuola e ce lo siamo persi, macché. Il nulla cosmico. Proviamo a tendere l’orecchio in ascolto di pareri a favore e pareri contrari, ci ritraiamo subito, mettendo l’anima al sicuro nei primi golfini settembrini, che riparano dal fresco a cui ci siamo disabituati e custodiscono l’integrità e il tepore delle nostre sensibilità.
E mentre distogliamo lo sguardo da simili manifesti inneggianti al brutto ed all’ostile, ci chiediamo come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto, ci stringiamo nelle spalle, insieme al golfino, anche un augurio, quello di rimanere inchiodati nella domanda iniziale, una di quelle senza riposta che tenga, perché il solo parlarne significherebbe scendere a quei livelli dai quali stiamo prendendo le distanze. Cosa c’è di creativo in una vandalizzazione?
Rielaboriamo i dati, ricalcoliamo il percorso come fanno i navigatori satellitari quando all’improvviso si trovano senza segnale satellitare: “ricalcola”, “ricalcola”. Un tempo le pubblicità erano l’anima del commercio, ora sembra facciano a gara a chi riesce meglio e prima a devastare quel che resta dei frammenti di anima sopravvissuti dal dopoguerra a oggi. Poche denotano intelligenza e pochissime stupiscono per il messaggio diretto o indiretto che riescono a trasmettere. In questo caso, quello per i manifesti che a Napoli hanno fatto inorridire una moltitudine di persone, l’unica reazione auspicabile è un CLIK. Spento, Stop. Fine storia.
Carino sarebbe scoprire “di nascosto l’effetto che fa” come recitava una vecchia canzone, se in assenza di queste brutture che passano come pubblicità, quelli della mostra (che non è la moglie del mostro) sarebbero mai riusciti a far sapere al mondo di esistere, non in quanto artisti, secondo la loro definizione, arbitrariamente coniata senza il permesso dell’accademia della crusca, ma in quanto mammiferi che popolano il pianeta terra. Non lo scopriremo solo vivendo, ma vivremo anche senza il bisogno di saperlo.
Mi faceva tenerezza lo scimpanzé del famoso “Dino, stappa un crodino”, abbiamo sorriso un po’ tutti per l’idea geniale di mettere una scimmia al di là del bancone e farsi servire dal barista; oggi al suo posto mi sentirei offeso come mammifero e reclamerei la rescissione del contratto pubblicitario. La razza degli umani non merita di convivere con chi ha detto “Dino stappa un crodino”.
Si argomenterà, se non è stato ancora fatto ma ne dubito, che siamo in democrazia e c’è la libertà di espressione in ogni sua forma e declinazione, dimenticando tuttavia che “la mia libertà termina dove inizia la tua” è solo una gran bella frase ad effetto grazie alla quale si è strumentalizzato in abbondanza e non ci presteremo qui allo stesso gioco, le cui regole, nemmeno a dirlo, cambiano in maniera pure retroattiva.
La libertà infatti termina quando cessa di esistere il rispetto. La mia come la tua, indipendentemente dalla quantità di libertà, che teoricamente dovrebbe essere uguale per tutti. Quando il rispetto viene meno, non c’è libertà che tenga e ogni azione è violazione, veleno messo in circolo indorato come nuovo concetto collettivo di democrazia ridondante.
SILENZIO. CLIK
Se il pulsossimetro della democrazia segna un livello inferiore rispetto alla norma, siamo in presenza di patologia in atto. Nei pulsossimetri di ultima generazione ci sono anche i dati relativi al battito e alla pressione. In questo particolare momento storico il pulsossimetro della presunta e bistrattata libertà di espressione restituisce valori assolutamente sballati, fuori range, quelli pieni di asterischi, che segnalano allarme, lontani dal buon vivere civile, dal buon gusto e lontanissimi se non diametralmente opposti, da tutto ciò che è arte.
Non abbiamo gli strumenti per curare una patologia cronica del genere ma possiamo non farci contagiare o anche solo sfiorare dagli effetti raccapriccianti che una tale sintomatologia potrebbe avere nel nostro vivere.
Non è necessario accettare, non è necessario nemmeno non farlo. Non è necessario parlarne, perché già solo il farlo ammetterebbe l’esistenza di qualcosa di cui si debba discutere. È davvero utile spiegare le motivazioni, scomodando magari illustri poeti o costituzione su questa o quella libertà di sparare corbellerie a raffica? Anche no.
Non è necessario parlare di qualcosa che ci indigna, ci ferisce, ci scandalizza e magari irritarsi, avvelenarsi o alzare la voce per argomentare meglio e con più autorità le ragioni per cui la tal cosa va fatta anziché no. Non è necessario accettare che l’asticella della tolleranza continui ad abbassarsi facendoci sentire sempre più inadeguati, arcaici, medioevali. E non è necessario nemmeno prenderla in una qualche considerazione questa dannata asticella, che di fatto abbiamo costruito noi per prendere le distanze da un frustrante malcostume e raccontarci la frottola che la tolleranza è democrazia e che tutto sommato “volemose bbene, ma tanto bene”. La vera blasfemia oggi è avere il coraggio di pretendere il silenzio rispetto a ciò che ci offende, ci indigna. La vera blasfemia oggi è prendere le distanze, con una accomodante scusa che ci faccia diplomaticamente accomiatare da una massa a cui prestiamo il consenso, anche se tacito, silente e vigliacco.
Spegniamo tutto il rumore che c’è, inutile e dispendioso dire che la musica è un’altra cosa.
Anzi, facciamo una cosa, amiamoci, nel senso vero del termine, amiamo noi stessi e per amor nostro disintegriamo l’asticella che misura le cose, gli scandali, i soprusi e il mal costume, la maleducazione, la tracotanza, l’aggressività. Eliminiamola proprio questa asticella , che sale, che scende, che alle volte non è così male, alle altre non è così bene e facciamo che il crodino è sempre e ancora servito allo scimmione troglodita, che Dio lo benedica, e che i cartoni animati restano sempre quelli che un tempo facevano sognare i bambini e riflettere gli adulti, che con la scusa di accompagnare i figli, ne approfittavano per fare un tuffo nella nostalgia di un tempo che all’epoca era un buon tempo.
E smettiamola di cinciscare, nel maldestro tentativo di accampare scuse che si sgretolano sul fondo scivoloso della menzogna, in ordine al sentimento religioso che si presta alla politica e viceversa, non regge nemmeno la scusa che una pseudo libertà non impedisce a credenti di aver fede o praticare il culto giustificando in tal modo anche l’esatto contrario. Gli atei non vengono derisi, gli agnostici men che meno, i musulmani e i discepoli ferventi di Paperone e Rockerduck, men che meno. Qui non è una questione di bianco o nero, cattolico o musulmano, cinese o africano, la dicotomia esiste solo nella mente patologica di chi vuole a tutti i costi legittimarla autorizzando una non meglio specificata oltre che gratuita aggressività. Il confine è il rispetto, non una libertà che ha inizio e termine, il rispetto. Per l’individuo, quale che sia la sua professione, per l’attitudine allo stupore e non allo scandalo, per la bellezza del creato in tutte le sue forme e non il tentativo di deturparlo ad ogni costo, per il senso etico e morale di un comune sentire che evolve verso l’alto, con lettera minuscola in primo luogo per non offendere nessuno, secondariamente perché alto indica il continuo anelito a migliorarsi e non a peggiorarsi. Immagino Dino che da dietro al bancone con le bottigline di crodino vuote, con non curanza ripone gli attrezzi e risolve il discorso “signori si chiude”.
Se qualcosa per noi non è bello, non sa di buono, non eleva, merita attenzione, tempo ed energie per spiegare il perché non è né bello né buono?
Dino, stappa un crodino, prima che inizi il cartone animato!