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E il naufragar m’è dolce in questo mare

È ancora possibile la poesia nella società delle comunicazioni di massa?

Infinito, poesia, silenzio. Ne abbiamo bisogno, come dell’aria che respiriamo. Rischiamo di finire invischiati nelle parole dette, urlate e stravolte attraverso i social che ci hanno ridotti ad essere litigiosi, sia pure virtualmente, limitati, chiusi nelle nostre convinzioni, anche e soprattutto se sbagliate.

O meglio, è diventato tutto così relativo e inconsistente nel mondo del web, che si è perso completamente il senso della realtà. Eppure siamo esseri sociali, di relazione, abbiamo bisogno del contatto fisico e verbale. E basterebbe riflettere su questa semplice parola “con-tatto” per capire appunto che la relazione può avvenire solo così: con tatto, cioè con garbo e delicatezza.

Perfino la nobile arte della politica, almeno quello che ne resta, non è più riconoscibile: non si usa più discutere in modo civile e pacato, si grida, si offende e si tira in ballo qualunque pecca dell’avversario, pur di distruggerlo. E non ci si ferma davanti a niente.

Per non parlare di alcuni tweets che più che cinguettii sarebbe meglio definire ragli asinini veri e propri. Si è talmente irretiti nell’uso di questi strumenti che ormai anche l’arte di governo è diventata un “gioco virtuale” di dominio pubblico, ma con conseguenze negative nella vita reale.

Ciascuno si sente in dovere di dire la sua, di commentare, di passare alla maldicenza e all’ingiuria. È normale? Il cittadino resta quantomeno sconcertato dalle stupidaggini pubblicate da alcuni di quelli che dovrebbero essere “saggi governanti” che non fanno altro che offendersi reciprocamente.

E i più sprovveduti ci cascano in pieno, imitando questo modus operandi, e vivono per postare baggianate senza fine dappertutto: facebook, twitter, WhatsApp e compagnia bella. Mi chiedo dove siano finiti tutti i buoni propositi, le promesse elettorali di buongoverno di molti dei nostri rappresentanti, e dove sia finita soprattutto la buona educazione di tutti.

Poi ci si lamenta del fatto che l’affluenza alle urne diminuisca di anno in anno e intanto noi cittadini, allo sbando, andiamo da un vuoto all’altro: chi ci salverà? Nessun proclama o credo politico. L’unica strada da percorrere, secondo me, è quella della cultura o della bellezza. Come volete.

Con loro come compagne di viaggio non ci si annoia mai e non si può in nessun caso scendere a certe volgarità. A essere obiettivi, di fronte al quadro appena delineato e volendo farmi guidare dalla cultura, mi vengono alla mente i versi del grande Leopardi: Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. (A se stesso).

Ma la mia intelligenza si rifiuta di accettare tanta amarezza, la mia fede me lo impedisce, anzi: il fallimento, il senso di vuoto e il limite, che ci attanagliano, suscitano in me il desiderio prepotente di esplorare “l’oltre”, per rivolgere lo sguardo verso l’infinito. E come farlo se non attraverso le voci della poesia? Prima tra tutte “L’infinito” nella quale il poeta Giacomo Leopardi guarda affascinato verso l’infinito che nasce in lui dalla contemplazione di un paesaggio reale: un colle, una siepe, le foglie agitate dal vento.

L’io lirico, ostacolato da una siepe, non può vedere oltre l’orizzonte e con l’immaginazione vagheggia un percorso che lo conduce prima alla visione di interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete, poi all’ascolto del suono delle stagioni passate e presenti e infine a naufragare dolcemente in un mare in cui si fondono finito e infinito, realtà e immaginazione, e si abbattono le barriere del tempo e dello spazio. È sete di assoluto, di eternità, innate nel cuore di ogni uomo.

È il fascino che ci attira verso l’ignoto, fin da bambini, quando nei nostri giochi immaginiamo un “altrove” in cui crollano le barriere del qui e ora, e che anche da adulti si manifesta nella ricerca di un fondamento “assoluto” della propria esistenza, di una dimensione lontana dalle ansie e dalla precarietà del presente.

L’ansia di infinito, l’attesa e la ricerca dell’Assoluto, il desiderio di annullare lo spazio e il tempo, l’aspirazione a una vita che si innalzi al di sopra della banale quotidianità sono gli argomenti che possiamo ritrovare nella produzione poetica di tutte le epoche: dal Cantico delle creature di San Francesco, alla poesia “O infinito Silenzio” di David Maria Turoldo (1916-1992), al componimento di Mario Luzi “Come tu vuoi”. Qui i temi dominanti sono l’attesa e la ricerca di un segno da parte di un essere sovrannaturale, che possa consolare la solitudine e la sofferente monotonia dell’esistenza, simboleggiata da una triste e fredda giornata d’inverno.

Anche nella lirica “Solo una mano d’angelo” di Alda Merini (1931), la tensione verso l’infinito nasce dalla sofferenza e dalla solitudine. Attorniato ma estraneo ai suoi simili, concentrati sulla propria quotidianità e indifferenti al dolore altrui, l’uomo può contare solo sulla comprensione e sull’aiuto degli “angeli”, creature fuori del tempo e lontane dal vortice pulsante della vita.

Creatura dell’infinito e dilatazione della nostra mente, l’angelo spezza la solitudine dolente degli uomini. Ebbene, per contrastare le insulsaggini di chi straparla e scrive di tutto senza misura e senza vergogna, vanno letti e meditati forse questi altri versi: La vita è altrove./Lontano dal fragore,/dal boato del successo./Di quanto accende,/perché di moda adesso/e su un’onda posticcia/cavalca la bocca/ di questo e quello. (M.Lombardi).

L’istinto di una goccia in un campo di patate, Il Filo, Roma 2007) Ma questa benedetta poesia è ancora viva? Certo non è popolare come il luccicante ma meschino mondo della moda, del calciomercato, degli spot, del trash televisivo. In questo contesto di esibizionismo isterico, lei è lì, discreta, silenziosa, indistruttibile.

Lei è molto più di tutto questo, è universale ed è viva più che mai, ed è pronta a ricordarci che oltre alla banalità quotidiana esiste qualcos’altro che magari ci siamo persi per strada: il contatto con la nostra anima.

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