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La panchina dei ricordi che non hai

“La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce e dove, dunque l’estraneo siete voi.” – Luigi Pirandello

E chissà se su quella panchina, seduta sfrontata, magari al contrario, gambe all’insù, provocando la vita, sfidandola a testa all’ingiù, avrà mai pensato che tutto sommato quella solitudine che sentiva non era poi così familiare né a lei né alle sue flebili certezze. Prendendo così le distanze da un mondo interiore che non vuole più le appartenga.

Il castello, visto al contrario, confonde i contorni nello specchio d’acqua antistante e così, mentre lei lascia che l’ultimo affronto si insinui nello scivolo delle barche che d’inverno diventa solo uno sciabordio di acqua che si alza e poi si abbassa, pensa che su questa panchina vorrebbe non tornarci più.

Poi c’è l’altra, quella schiva che porta a spasso il cappotto di quando era due taglie di più, rannicchiata sull’estremità della panchina, piedi puntati per terra in posizione di partenza, giusto giusto per riposare un po’ l’amarezza, pronta a sparire se qualcuno vuole sedersi a fumare una sigaretta.

Lei non guarda l’orizzonte, oltre il mare, oltre l’altra sponda, che deve per forza esserci, non fosse altro che si intravedono le luci di notte. Lei aspetta solo che il fiato corto riprenda il suo ritmo naturale e che il corpo smetta di manifestare sussulti troppo incostanti. Non reggerebbe lo sguardo di chi dovesse chiederle se ha bisogno di qualcosa. Sapendo bene che a nessuno in fondo interessa il ritmo dei suoi respiri o dei suoi singhiozzi strozzati. E che i più ne hanno paura.

Lei invece su quella panchina ci va solo di notte, quando la vita si addormenta e le luci si smorzano, quando i suoi tatuaggi violacei si confondono con i chiaroscuri dei lampioni e le luci delle lampare, con le ombre del maniero e quelle dell’anima.

Guarda la pioggia, se non l’avesse vista gocciolare tra una doga e l’altra della panchina per poi cadere a terra, sforzandosi di adeguarsi alla forza di gravità e non a quella di attrazione per restare accanto a chi quella pioggia la stava piangendo, nemmeno si accorgerebbe che sta piovendo.

Pensa che in una goccia non ci può essere solo l’acqua ma anche tutto quel che in quella goccia si riflette e tutto quanto vi è contenuto, il non detto ed il sussurrato. 

La panchina, rossa fiammante dalle luci accese della notte, spesso pensa: eccone un’altra che viene a posare su di me il disincanto dei sogni in frantumi, la delusione delle aspettative disattese, l’oblio di quel che realmente vale, il condizionamento per una scelta che non ha il coraggio di fare, la rassegnazione che mai nulla potrà cambiare e il convincimento che l’eco le restituisce, parlando sempre e solo con sé stessa: così doveva andare. Eccone un’altra che nel mio silenzio fa pace con il suo disagio e chiude gli occhi facendo finta di aver trovato la soluzione. La panchina non giudica.

Chissà se quando si è seduta ha guardato un punto preciso o solo mollato l’ancora e si è lasciata scivolare lungo l’orizzonte insieme ai suoi pensieri e a quel che resta del suo dolore.

Chissà se ha mai guardato a sinistra, sul far della sera, chiedendosi se dietro quelle lucine accese del maniero si intrecciano vite un po’ più dignitose della sua e chissà se quando ha iniziato a mareggiare ha sentito gli spruzzi sulla pelle o semplicemente si è lasciata bagnare diventando essa stessa salsedine scivolata sulla panchina, per confondersi con le minuscole pozze depositate lì, con il mare, le lacrime rassegnate, la pioggia battente a farle compagnia.

Ti sblocco un ricordo che spero non hai, uno smarrimento che spero non sia il tuo, un rammarico che volesse il cielo non appartiene a te, per decisioni non prese, solo pensate, immaginate, come una via di fuga o solo, un’altra vita, in un’altra dimensione. Ti sblocco l’impasse di fare i conti con l’improbabile fallimento che ti sei addebitata, con condanna passata in giudicato e senza più possibilità di appello, con l’inevitabile giudizio della gente, quella che vorrebbe tanto sapere cosa ti attraversa l’anima, solo per poterne sparlare un po’, meno probabile per tenderti la mano.

Resta, resta ancora un po’ ad attraversare questa notte buia dell’anima e aspetta, riprendi il fiato, copriti bene, ma aspetta, perché la buona notizia è che il sole tornerà a nascere, malgrado la notte ti sia sembrata un incubo, malgrado la panchina ti sia sembrata gelida, malgrado le ombre sembrava volessero attanagliarti.

Un altro giorno rinasce e aspetta solo che tu ritorni da quel viaggio nel tunnel, che ti ha tenuto lontana dalla vita, per troppo tempo ormai. La storia è quella che ti racconti e il finale lo decidi tu, se vuoi una mano basta solo chiederla, ne troverai tante pronte a protendersi per te, a sedersi con te e a far le boccacce, con la testa all’ingiù a quel castello che si crede di essere chissà chi, mentre è solo una immagine riflessa su una pozzanghera di acqua.

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