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Natale, quel Dio che ha bisogno dei nostri abbracci

Sorrisi, affettuosità e sano umorismo, non un Dio col broncio: la riflessione del teologo don Pino Lorizio, della Pontificia Università Lateranense

In occasione delle festività ormai imminenti mi è stato donato (e a mia volta ho donato) un piccolo libro della scrittrice ebrea Anna Gov, venuta a mancare nel 2012, dopo aver a lungo lottato col cancro. In realtà si tratta di una pièce teatrale dal titolo Oh Dio mio (titolo originale Oy, Elohim! Giuntina, Firenze 2008) intrisa di un sagace umorismo, nel quale, come nella migliore tradizione yiddish, si trova coinvolto Dio stesso. 

Del resto nell’Angelus della IV domenica di Avvento (19 dicembre) Papa Francesco aveva pronunziato un elogio dell’umorismo: «Se procediamo con il passo stanco dei brontolii e delle chiacchiere, non porteremo Dio a nessuno, soltanto porteremo amarezza, cose oscure. Fa tanto bene, invece, coltivare un sano umorismo, come facevano, ad esempio, san Tommaso Moro o san Filippo Neri.

Possiamo chiedere anche questa grazia, la grazia del sano umorismo: fa tanto bene». E il racconto talmudico del forno di Akhnai si conclude con l’espressione: «Dio sorrise e disse: “i miei figli mi hanno sconfitto!”». Non è escluso che l’Eterno sorrida ritrovandosi nello studio di una psicoterapeuta a parlare di sé e della sua depressione.

Nel corso della seduta Elohim si sentirà accusare dall’analista di essere una persona violenta: «è sempre minaccioso, è arrabbiato, nervoso, ha attacchi d’ira e poi castiga tutti in un modo orribile. E subito dopo si sente terribilmente in colpa. È lo schema classico delle persone violente. Lei è un pericolo pubblico, signore». 

Ma ciò che lo metterà all’angolo è il richiamo della donna alla figura di Giobbe e all’incapacità del Signore di dare risposta ai suoi profondi e tremendi interrogativi.

La diagnosi sarà semplice e al tempo stesso intrigante: Lei non è stato mai abbracciato! Ed è per questo che si comporta in tal modo soprattutto con coloro che ama più di altri, il suo popolo.

Avvicinandoci al Natale possiamo tranquillamente affermare che il Dio dei cristiani non ha e non avrà mai bisogno della psicanalisi, in quanto non vive la sindrome di una tremenda solitudine, che, nelle tradizioni del rigido monoteismo, coincide con l’unicità, e neppure si sottrae all’abbraccio, anzi si lascia abbracciare. Siamo infatti invitati a contemplare un bimbo in braccio a sua madre, che teneramente lo abbraccia.

Questa tenerezza dell’abbraccio, che caratterizza il messaggio evangelico, di cui papa Francesco si fa portavoce, contiene l’appello ad abbracciare Dio nella nostra esistenza. E tale invito/vocazione non riguarda soltanto coloro che “abbracciano” la vita religiosa, ma tutti i credenti.

Abbracciare Dio e quindi impedirgli di cadere in depressione, significa metterlo al centro della nostra vita e al tempo stesso vivere il suo abbraccio, mentre abbracciamo gli altri, l’amico, la persona amata, l’indigente, il bambino.

Quanto ci sono mancati e ancora per certi versi ci mancano gli abbracci delle persone care a causa della tragedia che stiamo vivendo! Dobbiamo recuperare, evitando di esporci al rischio del contagio, ma dobbiamo soprattutto pensare al senso dell’abbraccio, che è segno di pace e che supera ogni conflitto, pur legittimo.

Mentre contempliamo il bambino fra le braccia della madre, lasciamoci abbracciare da Dio e abbracciamolo nella nostra esistenza quotidiana.

da Famiglia Cristiana

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