L’intervista allo storico Agostino Giovagnoli, professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sull’attualità ed eredità del vescovo sudafricano anti apartheid morto lo scorso 26 dicembre
“Saremo liberi, tutti noi, bianchi e neri insieme, perché stiamo marciando verso la libertà”. È una delle frasi più note di Desmond Mpilo Tutu, arcivescovo anglicano e attivista sudafricano che raggiunse una fama mondiale a partire dagli anni ottanta come oppositore dell’apartheid. Il prelato, Premio Nobel per la Pace nel 1984, è morto il 26 dicembre scorso a novant’anni a Città del Capo. I funerali si svolgeranno sabato primo gennaio a Capetown.
Il Sudafrica “Rainbow Nation”
Con Tutu è scomparso l’ultimo dei grandi uomini che hanno vissuto la lunga stagione di rivoluzione e pacificazione che ha cambiato il volto del Sudafrica: da Paese diviso tra bianchi e afrikaner a “Rainbow Nation” – Nazione arcobaleno – definizione peraltro attribuita proprio all’arcivescovo.
“Ero arrivato a sessantadue anni prima di poter votare, Nelson Mandela a settantasei. Pensate che cosa ha significato per noi quel 27 aprile del 1994”. Così Tutu ricordava il giorno del primo voto democratico in Sudafrica nel suo libro intitolato “Non c’è futuro senza perdono”; il suo testamento spirituale racconta la sua esperienza a capo della “Commissione per la verità e la riconciliazione” (TRC), voluta nel 1995 dall’altro Premio Nobel per la Pace sudafricano, Nelson Mandela.
La Commissione per la verità e la riconciliazione e l’apartheid
La commissione, in un doloroso processo di pacificazione fra le due parti della società sudafricana (quella bianca e quella africana) mise in luce la verità sulle atrocità commesse durante i decenni di apartheid, la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica e rimasta in vigore fino al 1991. Il perdono fu accordato a chi, fra i responsabili di quelle atrocità commesse, avesse pienamente confessato le proprie colpe: una forma di riparazione morale anche nei confronti dei familiari delle vittime.
Nel giorno della sua scomparsa, a Santo Stefano, Papa Francesco ha inviato un telegramma al nunzio in Sudafrica, Peter Bryan Wells, nel quale descrive Tutu quale testimonianza vivente di “servizio al Vangelo tramite la promozione dell’uguaglianza razziale e la riconciliazione”.
Sulla centralità della figura di Tutu e sulla sua eredità al mondo, cristiano e non, pubblichiamo l’intervista al professore Agostino Giovagnoli, storico italiano, e professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Giovagnoli si è occupato di storia dell’Italia repubblicana, dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica e di storia delle relazioni internazionali, pubblicando numerosi libri e contributi.
Qual è stata l’importanza dell’arcivescovo Tutu nella creazione del moderno Sudafrica?
“L’arcivescovo Desmond Tutu ha giocato un ruolo fondamentale per due motivi. Il primo: ha proposto con grande vigore la lotta contro l’apartheid. Questo è stato possibile grazie al metodo scelto: la non violenza. Secondo: è stato fondamentale anche nella seconda fase, quella della costruzione di una nuova identità nazionale, nel ricucire i rapporti di una società ferita. La sua opera ha contribuito fortemente a superare i conflitti sociali”.
Quali erano le differenze con Nelson Mandela?
“Le differenze sono varie. In primis, la scelta di una visione umana del problema e dunque fortemente anti ideologica: Tutu non ha mai abbracciato la teoria della lotta all’apartheid in senso ideologico, ma concreto, in aiuto alla gente. Inoltre, scelse di percorrere la strada dei metodi non violenti, scelta dettata dalla sua radicata fede. L’opera di Tutu è stata l’espressione di un’utopia: una riconciliazione pacifica tra tutti i sudafricani. Un miracolo che poi è avvenuto grazie in gran parte alla sua incessante opera di pacificazione”.
Qual è l’attualità di mons. Tutu nel nostro contesto storico e geopolitico?
“Tutu ha lasciato due lezioni molto valide. Innanzitutto, la visione del Sudafrica come Nazione Arcobaleno, che significa che tutte le situazioni sono situazioni plurali, di soggetti, gruppi e tendenze diverse tra loro ma che coabitano insieme anche se possono apparire apparentemente inconciliabili. Ma non è così: nell’arcobaleno sono presenti dei colori diversi ma uniti. La sua era una visione fiduciosa che il pluralismo potesse trasformarsi in convivenza pacifica, e così è stato. L’altra sua grande lezione è che non c’è giustizia senza perdono: dopo l’apartheid, vittime e carnefici si sono trovate faccia a faccia in un confronto veritiero ma duro, con l’obiettivo della riconciliazione e del perdono. Questo resta un modello insuperato, sempre attuale anche in quelle situazioni contemporanee, penso alle tante periferie del mondo o nelle zone di conflitto, dove ci sono profonde ferite storiche da rimarginare. La giustizia – pur fondamentale – da sola non basta: è necessaria la riconciliazione attraverso il perdono”.
Possiamo indicare Tutu quale importante figura ecumenica?
“Assolutamente sì perché il messaggio di convivenza pacifica promosso da Tutu è universale, non solo cristiano o specificatamente cattolico. Non a caso lui è stata una figura apprezzatissima da cristiani di tutte le confessioni, in primis dai cattolici. Non è stato solo un modello di ecumenismo, ma un campione di ecumenismo! Ecumenismo è unirsi tra fratelli divisi, è volontà di incontro nelle grandi questioni contemporanee, come quelle del razzismo e della pace”.
Qual è, in conclusione, la principale eredità dell’arcivescovo Tutu?
“La sua fede. La costanza nel credere che l’avvento del Regno di Dio può davvero cambiare la Storia. E lui ha cambiato la Storia, non solo del Sudafrica, grazie soprattutto alla sua fede”.
Fonte: Milena Castigli – In Terris