La scuola purtroppo è al centro del dibattito solo per l’emergenza virale, mai per quella vitale che la ferisce da decenni. Voglio allora fermarmi sulle righe ricevute di recente da un 13enne: «Ho visto un video in cui parla del talento. Mi ha fatto riflettere, avevo un’altra idea del talento, pensavo fosse legato al successo e alla fama. La sua spiegazione mi ha dato serenità».
Le narrazioni offerte ai ragazzi determinano la loro esperienza della vita. Questo ragazzo è angosciato dalla parola talento: parola vitale divenuta mortifera. Come è accaduto? Il talento (antica unità di peso molto grande: 34 kg d’argento, cioè un’intera vita di lavoro di un operaio) è proverbiale grazie alla parabola del vangelo di Matteo (25), in cui Cristo descrive il regno dei cieli, cioè il mondo come Dio lo offre agli uomini. La storia narra di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i servi e consegnò loro i suoi beni.
A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? Il testo dice che i talenti non sono «le capacità», ma ciò che viene dato a ciascuno «secondo la sua capacità».
Se confondiamo i talenti con «le capacità», la vita diventa un’ingiusta e spossante competizione, tipica della nostra società della performance che infatti genera soggetti stanchi, se non re-/de-pressi. Nella parabola si narra ben altro: che cosa?
Il talento è la vita che ciascuno può ricevere in base «alla» capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. I bicchieri hanno capacità diverse, ma non sono in competizione: ciascuno è pieno se riceve il liquido di cui è capace. A differenza dei bicchieri però, la «capacità» umana non è «cristallizzata»: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca dynamis (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe tradurre: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia».
Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama desiderio, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace». Agostino lo spiega così: «Non potendo ora vedere il paradiso, vostro impegno sia desiderarlo. La vita è tutta desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati. Se devi riempire un sacco e sai che ciò che ti sarà dato è molto grande, ti preoccupi di allargare il sacco più che puoi.
Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e lo rende più capace. Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. La vita è esercitarsi nel desiderio». Esercitarsi nel desiderio, cioè ampliare la capacità di ricevere vita, è la definizione migliore di felicità. Al ritorno dal viaggio infatti l’uomo chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due su tre hanno raddoppiato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia».
Colui che invece ha sotterrato il talento ha sotterrato la vita e si giustifica così: «Per paura lo andai a nascondere sotterra». Ha rinunciato a «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: seppellendo il talento ha seppellito sè stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la paura e la pigrizia sono state la sua tomba in vita.
Nell’italiano delle origini, talento significava non a caso desiderio: vivere in un talento è per Dante, nella famosa poesia per i suoi amici, aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita in-determinata (desiderio) a pre-determinata (destino).
Un 13enne, immerso nella cultura della prestazione e dell’autoaffermazione, è giustamente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. Proteggere la salute dei ragazzi oggi è farli esercitare non nel «potere» (domina il mondo) ma nel desiderio, nel «poter essere» (amplia il mondo). L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come ricevere vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?».
E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?». Un’educazione che con-forta (dà forza a) questa «energia» (dynamis), dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i ragazzi a distinguere «i desideri» indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita.
Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?
Fonte: Alessandro D’Avenia – Corriere della sera