“Frequentare la Parola di Dio significa riuscire a plasmare anche le nostre parole, suscitare un’etica corrispondente, aprendo così il nostro linguaggio a tutto ciò che va al di là dello strettamente utile e dello strettamente strumentale”
Domenica 23 gennaio è stata la Domenica della Parola di Dio. Papa Francesco l’ha istituita nel settembre del 2019, pensandola come una giornata in cui ogni fedele è invitato a ridestare il suo interesse verso le Sacre Scritture, per conoscere il messaggio e promuoverne la diffusione tra credenti e non credenti. Un interesse, questo, che lungo il corso dei secoli ha illuminato lo sguardo di credenti e non, alimentando la loro missione in un mondo sempre più plurale e sempre più attraversato da ferite e sete di senso.
In realtà già l’ultimo Concilio aveva percepito l’urgenza per il popolo di Dio di ravvivare la familiarità coi libri sacri soprattutto perché forieri di un promettente rinnovamento ecclesiale: “Come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico – si legge nella Dei Verbum – si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall’accresciuta venerazione per la parola di Dio, che ‘permane in eterno’”. Motivi storici, in gran parte riconducibili alla controversia col mondo protestante e non solo, avevano infatti allargato, e di molto, il fossato tra Bibbia e popolo di Dio.
Ma venerare la parola di Dio, frequentarla come si frequenta una persona amica, non significa solamente alimentare un pensiero ricco di valori e animato da buoni propositi. Frequentare la Parola di Dio significa riuscire a plasmare anche le nostre parole, suscitare un’etica corrispondente, aprendo così il nostro linguaggio a tutto ciò che va al di là dello strettamente utile e dello strettamente strumentale. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, recita un vecchio proverbio popolare, così, analogamente, diventare amico la Parola di Dio significa promuovere una differente qualità di vita e capacità creative al passo coi tempi.
Gli esempi sono davvero innumerevoli. Artisti, musicisti, scultori, poeti, filosofi, persino economisti e uomini che lavorano sul web, trovano in essa germi ispirativi per il loro agire umano e professionale. Marc Chagall, ad esempio, affermava che la Bibbia era l’alfabeto di colori a cui ha attinto tutta l’arte occidentale.
Tuttavia ciò che sempre mi colpisce, è il fatto che la coltivazione della Parola di Dio, per dirla con Ivan Illich, lo stare nella vigna del testo, con serietà, preghiera e metodo, ha sempre generato una trasformazione delle parole parlate e con esse il mondo a cui si riferiscono. Leggere assiduamente, ascoltarla con l’orecchio del cuore e della mente, è in pratica darsi la possibilità di un cambiamento interiore, una ricostruzione gioiosa della propria identità, fino ad diventare un cammino verso una bontà dal sapore vero e una bellezza sempre nuova.
È però vero anche il contrario. Dove infatti, più o meno coscientemente, la parola umana sottomette la Parola di Dio alla propria logica, alle personali ideologie manipolative, misconoscendo la provata autorevolezza di quei testi, il potere della Parola si rovescia nella parola del potere (Philippe Breton). Lì umanità e bellezza vengono ecclissate.
Per questo la Chiesa ha sempre posto una somma attenzione nella sua frequentazione, formulando una serie di principi e di orientamenti, che ne permettono una lettura virtuosa e fruttuosa. Essa conosce bene l’enorme potenziale che ne può provenire, ma non nasconde le difficoltà di interpretazione e le asperità di quel cammino normato.
Ma c’è una distinzione da fare, soprattutto in questa ricorrenza.
La lettera del grande codice della cultura occidentale, per dirla con il titolo del fortunatissimo libro di Northrop Frye, cioè la Bibbia, va distinta da ciò che comunemente chiamiamo Parola di Dio. Ciò non ci deve sfuggire. La Parola di Dio non si può mettere in tasca o dentro la nostra borsa, la Scrittura sì. La Bibbia infatti, (Bibbia, lo sappiamo bene, è un termine greco, un plurale, che vuol dire libri) l’insieme di 73 piccoli libri, (46 dell’Antico Testamento e 27 del Nuovo Testamento) rappresenta essenzialmente un corpo visibile di parole scritte ben riconoscibili in un canone o come dice Papa Gregorio Magno è la lettera di Dio donata agli uomini. Ma questa lettera altro non è che uno dei frutti di quell’albero che è la Parola di Dio. La Parola è infatti madre di quella lettera.
La parola di Dio perciò, nella sua interezza, rimane sempre eccedente rispetto alla sua scrittura, è traboccante rispetto alla sua scrittura, semplicemente perché viene da più lontano. Solo così si comprende perché silenzio e preghiera sono il vero contesto in cui ci parla nelle orecchie e nel cuore.
La Scrittura sacra andrebbe perciò pensata come carne della Parola di Dio e come ogni carne si offre come porta di accesso allo spirito che abita in essa, solo a partire dal suo interno. Nessuno può abbracciare lo spirito di una persona se non attraverso il suo corpo fisico. E anche abbracciando quel corpo, il suo spirito rimane sempre oltre, non pienamente disponibile dall’esterno. Quante volte la presenza fisica di una persona non corrisponde affatto alla vicinanza spirituale. Così è la Parola di Dio che rimane lontana se non si abbraccia nella ‘carne’ del suo scritto e se non si offre a noi come un dono. La Scrittura è dunque come un corpo che si apre a noi parlandoci solamente perché il Signore ci concede quel dono di Luce.
Credo che questa distinzione vada ricordata nella domenica della ‘Parola di Dio’, se si desidera superare quel freddo letteralismo esegetico, che impedisce di riscaldare i cuori e alimentare gli spiriti.
Dobbiamo ricordarla ogni volta che abbracciamo la Bibbia nel silenzio della nostra stanza o nella celebrazione della santa messa. Quel gesto, profondamente simbolico, che ogni sacerdote compie al termine della lettura del vangelo durante la liturgia, cioè baciare il testo sacro appena letto, ci rimanda esattamente a quella differenza. Come l’amante che bacia la foto dell’amata perché la vuole raggiungere così il credente bacia le parole dell’amato perché vuole vedere il suo volto, desidera stare alla sua presenza.
Forse proprio quella fede semplice e sincera dei nostri nonni, che vedevano al di là e dentro la Bibbia il cuore del loro creatore, è bene ridettare in noi, perché, in fondo, siamo tutti figli di quella radice, anche noi ancora oggi non possiamo non dirci cristiani.
Fonte: Domenico Concolino – Cappellano Università Magna Graecia