La pioggia di bombe che cade su Kiev elimina qualche dubbio, porta qualche timida certezza: non si tratta di reazione alle provocazioni ucraine, ma di azione premeditata. “Superior stabat lupus, inferior agnus” scriveva Esopo, ma questo non impedì al lupo di saltare sull’agnello con l’accusa di sporcargli l’acqua del torrente.
Vladimir Putin sfugge alla facile classificazione della follia. Se anche follia fosse, la sua avrebbe molto ma molto metodo. Intanto ha un merito: ha riportato alla sua essenzialità il dibattito sulla Nato e soprattutto sull’Unione Europea, costringendoci dopo anni e anni di leggiadrie e superficialità a interrogarci sulla natura e sullo scopo delle grandi scelte – europea, atlantica – compiute da De Gasperi agli albori della nostra democrazia.
Il dibattito in Parlamento sulle comunicazioni del Presidente Draghi è stato, al riguardo, rivelatore. Nessuno ha avuto il coraggio di giocare quella carta sovranista e antieuropea che in un passato recente ne aveva determinato anche qualche successo elettorale; men che meno quello di rivendicare (eppure sarebbe stata cosa nobile, almeno moralmente) vecchie e sbandierate amicizie con il Cremlino, con weekend nella sua dacia e foto di famiglia sulla Piazza Rossa. Da questo punto di vista la guerra in Ucraina ha già il suo perdente; tocca ora proclamare il vincitore e questi, più che l’Alleanza Atlantica è l’Europa unita.
La Nato non può intervenire direttamente: è evidente il rischio che comporta una tale escalation e Johnson in imbarazzo di fronte alle domande di una giornalista di Kiev dimostra il limite oggettivo di un colosso fin troppo potente. Ma se il premier britannico fosse stato ancora un premier europeo, allora la risposta l’avrebbe avuta pronta: da Bruxelles faremo di tutto. Invece no, non ha potuto dir nulla e questo rappresenta la sconfitta, amara, di chi ha voluto la Brexit trasformando il proprio Paese in una provincia circondata dall’Oceano.
Non a caso Zelensky, che sa bene quali siano i nuovi equilibri in formazione, non nomina la Nato nelle sue richieste di ingresso, ma l’Ue. Una vecchia signora, quest’ultima, che sta superando tac ed esami con grande sorpresa di scettici e neonazionalisti. Doveva soccombere ad una ondata di exit spesso invocate da partiti che proprio a Putin erano legati (in Italia, Austria, persino Germania) e invece ha dimostrato la placida tranquillità di chi ha fatto bene il suo dovere e non teme il futuro. Persino la cautela con cui reagisce alla legittima e comprensibile richiesta di adesione da parte ucraina rappresenta un fattore di solidità. Non è mai bene agire d’impulso, ma soprattutto è bene rispettare regole e step, magari accelerandoli un po’. Sia chiaro che entrare nell’Ue vuol dire soddisfare certi criteri e far propri certi valori: un processo di assimilazione difficile da compiere sotto un bombardamento, soprattutto se il punto di partenza non è particolarmente vicino alla meta. Comunque niente va precluso; anzi, tutto va incoraggiato.
Basta non replicare gli errori commessi in piena sbornia post 1989, anche nei confronti della Russia. E qui non parliamo dello stucchevole dibattito sull’avanzamento della Nato, né dell’Unione Europea. Parliamo del mai tentato processo di democracy-building in un impero che la democrazia mai l’aveva conosciuta. Parliamo anche dell’imposizione di un modello economico iperliberista che si è saldato su una struttura sociale già storicamente predisposta ad avere uno zar signore delle ricchezze, pochi boiardi ricchissimi e nessun ceto medio.
È questa la radice delle sofferenze dell’Ucraina, non certo l’UE con tutte le sue manchevolezze. A proposito: anche noi riflettiamo sui nostri errori. Arriva il momento di mettere da parte l’Europa dei ragionieri e dei banchieri e ritrovare, come ai tempi di De Gasperi, quella dei politici.
Fonte: Nicola Graziani – InTerris.it