Facile prevedere che il nuovo intervento del patriarca di Mosca susciterà divisioni anche all’interno della comunità ortodossa russa. Si tratta di capire quale entità avrà questo dissenso
Nelle stesse ore in cui il Papa lanciava l’ennesimo, vibrante, appello alla pace, chiedendo di far tacere le armi, anche Kirill è tornato a far sentire pubblicamente la sua voce. L’occasione è stata la cosiddetta “Domenica del perdono”, che nel calendario giuliano precede l’ingresso nel tempo liturgico della Quaresima. In questo giorno, tradizionalmente, i fedeli riconoscono le proprie colpe davanti agli amici e persino alle persone sconosciute, impegnandosi a propria volta a dimenticare offese e rancori subiti. Una liturgia della purificazione, se così si può dire, che ha dato al patriarca di Mosca e di tutte le Russie l’occasione per ricollegarsi alla crisi in corso, senza peraltro mai parlare di guerra, termine proibito dal governo Putin.
La riflessione si è infatti circoscritta al Donbass, la regione comprendente le repubbliche di Donetsk e Lugansk autoproclamatesi tali nel 2014, la cui protezione è uno dei pretesti addotti dalle autorità moscovite per giustificare l’invasione iniziata la settimana scorsa. Nella sua omelia, infatti, Kirill ha fatto esplicito riferimento agli otto anni intercorsi da allora, durante i quali, nella ricostruzione storico-metafisica del patriarca, la regione mineraria è stata a rischio distruzione, innanzitutto “morale”, per colpa della sirene occidentali. In questo territorio, ha denunciato il leader ortodosso, «c’è un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale». Per capirlo basta un test, di verifica dell’appartenenza all’impero «del consumo eccessivo» «della “libertà” visibile».
La prova «semplice e terribile» al tempo stesso è l’accettazione o il rifiuto di organizzare parate gay: se si dice no, allora si diventa estranei e rifiutati da quel mondo. Per entrare nel club di quei Paesi «è necessario organizzare una parata del gay pride». Chi resiste subisce repressioni. Si vuole cioè «imporre con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio, e quindi» costringere le persone alla «negazione di Dio e della sua verità». Detto in altro modo, le parate gay «hanno lo scopo di dimostrare che il peccato fa parte del comportamento umano» e l’ospitarle rappresenta una sorta di «prova di lealtà» fornita dai governi occidentali. Un atteggiamento invece «sostanzialmente rifiutato» dalle autoproclamatesi repubbliche indipendentiste nell’Ucraina orientale, per questo combattute dall’Occidente. Di qui, dunque il sostegno all’offensiva putiniana, mai peraltro citata esplicitamente. «Oggi i nostri fratelli nel Donbass, gli ortodossi, stanno indubbiamente soffrendo, e noi non possiamo che stare con loro, soprattutto nella preghiera», ha concluso Kirill. Allo stesso tempo, «dobbiamo pregare affinché la pace giunga al più presto, che il sangue dei nostri fratelli e sorelle si fermi, che il Signore inclini la sua misericordia verso la terra sofferente del Donbass, che ha portato questo segno triste per otto anni, generato dal peccato e dall’odio umani».
Facile prevedere che il nuovo intervento di Kirill susciterà divisioni anche all’interno della comunità ortodossa russa. Si tratta di capire quale entità avrà questo dissenso e se sarà disponibile a manifestarsi pubblicamente. Nei giorni scorsi in una lettera aperta, 236 tra sacerdoti e diaconi ortodossi, avevano parlato di «calvario» cui «i nostri fratelli e sorelle in Ucraina sono stati immeritatamente sottoposti», invocando riconciliazione e un immediato cessate il fuoco.
Fonte: Riccardo Maccioni – Avvenire