L’intervista a Carlo Felice Casula, professore emerito di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Roma 3
Il 17 marzo di ogni anno nel nostro Paese si celebra la Giornata dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera. In questo giorno infatti, nel 1861, con la legge 4671/1861, il Regno di Sardegna proclama la nascita del Regno d’Italia, con a capo Vittorio Emanuele II di Savoia e capitale Torino, in seguito alla Seconda guerra di indipendenza contro l’Austria e alla spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Sono passati 161 anni da quella data, e dalla nascita dell’Italia unita in tre occasioni si sono celebrati importanti anniversari: il cinquantesimo nel 1911, in epoca giolittiana; il centenario nel 1961, negli anni del boom economico; i 150 anni nel 2011.
Gli anniversari
“In occasione della ricorrenza del 1911 fu messa in campo una capillare serie di iniziative, in un clima di grande positività”, racconta il professore emerito di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Roma 3 Carlo Felice Casula, “tra cui una grande, mostra organizzata a Roma, dove vennero installati padiglioni in cui si presentava la ‘nuova’ Italia, colta in un momento di crescita e di sviluppo straordinari, e insieme le realtà regionali”. “I festeggiamenti per i cento anni caddero in pieno ‘miracolo economico’, nei primi anni Sessanta, quando l’Italia era uno degli Stati più in buona salute, a livello europeo e mondiale”, illustra lo storico, “mentre i festeggiamenti del 2011 non erano più pervasi da questo ottimismo, dopo le critiche che negli anni precedenti erano arrivate sia dal nord del Paese, con l’esperienza della Lega, che da alcune posizioni di stampo neoborbonico nate nel Meridione”.
Gli Stati-nazione
Per comprendere il processo di unificazione della Penisola, capirne le ragioni profonde, ideali, politiche, amministrative, militari, e le contraddizioni, occorre prima allargare lo sguardo al contesto allora coevo e analizzare le dinamiche e le tendenze in corso. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, l’Europa assiste alla nascita o al consolidamento degli Stati-nazione, organizzazioni politiche e giuridiche che governano comunità identificate per lingua, tradizione letteraria, talvolta religione.
Ma da uno schema di incontro tra nazioni liberate si arriva a una realtà di stati ferocemente contrapposti l’uno con l’altro, con un conflitto che ha luogo sul continente e lascia sul terreno dieci milioni di morti. “Queste nuove realtà si formano in base a due processi, separazione”, dove a secedere è una realtà omogenea, “e unificazione”, dove si vanno a unire realtà differenti, spiega Casula. “Appartengono al primo gruppo gli Stati della penisola balcanica sorti dopo la dissoluzione dell’impero ottomano, quelli che nascono a seguito della fine degli impero austro-ungarico e zarista, l’Irlanda che si separa dall’Inghilterra e la Norvegia dalla Svezia. Gli Stati che invece si formano per unificazione sono l’Italia, attorno allo stato sabaudo, la Germania attorno alla Prussia, la Polonia e la Repubblica di Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale”, elenca lo storico.
“A un’analisi comparata tra Italia, Germania e Jugoslavia, osserviamo che dopo le difficoltà della nascita di uno stato unitario italiano, questo è quello che ha ‘retto’ meglio”, continua il professor Casula. “Il nostro Paese, fatta eccezione per il periodo di occupazione tedesca tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945, con il centro-nord sotto il controllo tedesco e gli Alleati nel Sud, ha mantenuto la propria unità, con aggiustamenti ai confini nord orientali dopo le due guerre mondiali, mentre dopo il secondo conflitto mondiale la Germania è stata suddivisa in Germania Ovest e Germania Est e la Jugoslavia ha conosciuto le guerre balcaniche negli anni Novanta”, commenta lo storico.
Com’è composto il regno d’Italia, al momento della sua proclamazione?
“Unifica quasi l’intera Penisola, un territorio più vasto di quello pre-unitario perché ora include precedenti domini dello Stato della Chiesa, cioè l’Emilia-Romagna, l’Umbria e le Marche, sia attraverso la conquista militare che con il plebiscito, come a Modena, Parma e Piacenza, e quello che era stato il Regno delle Due Sicilie nel meridione. Mancavano ancora alcune regioni del nord est, il Veneto, il Friuli, la Venezia Giulia e quello che oggi è il Trentino. Capitale del regno unitario è Torino, che lo già lo era del regno di Sardegna, e sovrano Vittorio Emanuele II, elemento di continuità tra i due regni”.
Quando si ritiene concluso il Risorgimento?
“Con la Prima guerra mondiale avviene il completamento dell’unificazione territoriale e al regno d’Italia sono accorpate regioni che secondo gli schemi ‘tradizionali’ della nazione, non ne facevano parte. Come l’Alto Adige e le regioni ai confini orientali, dove ci sono città costiere abitate da italiani mentre croati e sloveni popolano le campagne circostanti. Ma l’Italia vive la vittoria nel conflitto come una ‘vittoria mutilata’, facendo anche riferimento ai tanti mutilati della guerra, perché le sue ambizioni di espansione territoriale nell’Adriatico erano ostacolate dalla presenza del regno di Jugoslavia”.
Quali erano gli ideali culturali e politici del Risorgimento?
“Le ipotesi della creazione di uno stato italiano erano diverse. C’erano quella mazziniana di uno stato repubblicano fortemente unitario, sul modello francese, e che presupponeva l’idea che la creazione di stati unitari avrebbe portato la pace sul continente. Una ipotesi che animò il risorgimento e la repubblica romana del 1848-’49. Quella di Carlo Cattaneo, legata allo sviluppo industriale e scientifico, che prevedeva una nazione fatta di ‘diversi’, come la Svizzera: uno stato che fosse una repubblica federale, dove venissero conservate le specificità delle varie parti.
La politica del conte di Cavour mirava invece a uno stato monarchico sabaudo territorialmente più vasto, che inizialmente avrebbe dovuto comprendere il regno di Sardegna e la Lombardia per poi estendersi al resto della penisola. L’idea di Carlo Gioberti infine era quella di creare una confederazione degli stati pre-unitari con una sorta di presidenza quasi onoraria da attribuire al papa, in questo caso Pio IX.
Ipotesi basata su quanto accaduto nella Prima guerra di indipendenza contro l’Austria, quando anche lo stato della Chiesa inviò corpi di volontari e militari veri e propri in aiuto degli Stati pre-unitari”.
Qual è il grado di partecipazione del popolo al processo di unificazione?
“Il Risorgimento è stato un fatto di elite, non di popolo. Quest’ultimo ne rimane sostanzialmente estraneo e anzi percepisce il nuovo stato unitario come distante da sé e persino ostile. Il regno d’Italia si rivela diverso rispetto ad alcune delle speranze iniziali e dal punto di vista fiscale è visto come ‘oppressore’, per via della tassa sul macinato che si dimostra una tassa sui poveri, dato che riguarda i beni che i ceti popolari di campagna e di città acquistavano per la loro alimentazione a base di cereali e farinacei”.
Quali elementi hanno fatto si che la spedizione dei Mille guidata da Garibaldi avesse esito positivo?
“Al di là della consolidata tradizionale letteraria, bisogna avere presente che affinché i Mille potessero arrivare in Sicilia ci fu bisogno della neutralità della Gran Bretagna e del sostanziale consenso dell’opinione pubblica francese, che si andava allora formando attraverso la diffusione di libri e giornali.
Un altro aspetto di rilievo per riscuotere il consenso dei giovani, i ‘picciotti’, e della nuova borghesia delle campagne è stata l’intelligente mossa di Giuseppe Garibaldi di presentare l’impresa e la fine del regno borbonico come la precondizione per la fine dell’oppressione sociale della grande nobiltà terriera, dei massari e degli amministratori delle proprietà nobiliari.
Più a nord, Cavour ha saputo convincere il re sabaudo a gestire l’impresa garibaldina, garantendo la fine anche militare del regno delle Due Sicilie con l’assedio di Gaeta”.
Cosa avviene con l’unificazione del centro-sud, la famosa “questione meridionale”?
“Succede che a quel punto bisogna fare i conti con una realtà territoriale diversa rispetto al centro-nord e per certi aspetti ad esso sconosciuta. Il Regno delle Due Sicilie, lo stato più vasto – Napoli era e continuerà ad essere per molto tempo la città più popolosa d’Italia – e abitato dalla maggioranza della popolazione italiana, era una realtà segnata dall’arretratezza, da una classe politica inesistente o subalterna.
Al momento dell’unificazione, lo Stato italiano ha il suo centro a Torino, l’esercito al nord e un’amministrazione estremamente ordinata che continuerà ad essere ‘piemontese’, ma anche un debito pubblico elevato per via dei costi delle due guerre d’indipendenza e della guerra di Crimea.
Regno di Napoli invece aveva un bilancio senza passività, perché non stanziava molte risorse nelle infrastrutture civili, come ferrovie strade, e servizi, mentre i commerci erano essenzialmente marittimi. Dopo l’unificazione, il divario nord-sud tenderà ad aumentare e sarà all’origine del fenomeno delle grandi migrazioni degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, verso il nord ovest del Paese”.
Fonte: Lorenzo Cipolla – Interris.it