Negli occhi di chi arriva dopo un viaggio che definire massacrante è eufemistico, c’è la forza e la dignità di un popolo che non si piega e che paga in contanti la scelta di libertà. Paga perdendo amici, parenti, conoscenti, vicini di casa e la casa stessa, il lavoro, l’auto e tutto quel che gira attorno ad una vita, per mettere in salvo i figli e loro stessi. Sono donne, mamme, sorelle, figlie, nipoti, che portano in salvo figli, nipoti, fratellini. Da casa loro che al momento non è più lì dove sono nati e vissuti fino ad ora, a casa altrove, ovunque vi sia riparo, dalle bombe, dai colpi di fucile, dai rumori di allarmi e di aerei che passano e di lì a poco seguirà il boato.
Nella memoria genetica delle donne ucraine c’è una storia antica, di sofferenze, di negazioni, di privazioni ataviche e di rinascita. Come se nel loro codice genetico – come del resto credo in quello di ogni donna – ci sia il gene della replicazione, cioè delle generazioni che verranno, conservando sempre memoria di storie che non hanno vissuto. Né Holodomor, né Kolyma ci hanno potuto niente, figuriamoci un Putin qualunque.
Ospitiamo, accogliamo, siamo misericordiosi e sosteniamo. Una catena umana che sulla nostra isola si muove in maniera disorganizzata eppure certosina, in modi insospettabili, per strade imprevedibili e si supera, come ogni qualvolta scatta un’emergenza, e dire che, negli ultimi anni, di emergenze ne abbiamo viste abbastanza!
Ora è il momento di fare un passo avanti, di superare il limite dell’accoglienza, della ospitalità che è già proverbiale. Casa loro. Ora si azzarda a vincere il banco, si scandalizza in maniera insidiosa dissimulando carità e misericordia con intenzione precisa e arguta: ora si fa in modo che si sentano a casa loro e solo allora potremmo veramente testimoniare di aver fatto tutto il possibile, a casa loro. E del resto, che cosa è una casa?
“Questa è la vera natura della casa: il luogo della pace; il rifugio non soltanto dal torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia.” John Ruskin
Costantin è uno scricchiolo d’uomo cha calpesta questo mondo da cinque anni. Ha due fari che ti punta dritto negli occhi di un blu cobalto intenso da far invidia al cielo quando è terso; lui non ti guarda, ti beve; capelli lunghi e biondi che se si fosse girato e avessi visto, sulla sua schienuccia da uccellino, due ali piccoline non mi sarei meravigliata. Gli ho messo in braccio il peluche di barboncino, ha steso la manina e mi ha dato una caramellina gommosa; poi ha detto alla nonna qualcosa nella sua lingua e la nonna mi ha tradotto che si raccomandava acchè io non la ingoiassi subito, ma la masticassi “perché sennò soffoca”.
Ha un po’ di tosse, niente febbre, nel suo pigiama caldo di pile e con il suo cellulare in mano a guardare cartoni ucraini, sta più che bene. Domani lo facciamo visitare, domani però, ora deve atterrare dal suo viaggio spaziale, durato troppi giorni, con l’incertezza a far da compagna di avventura e la sicurezza della mano della sua mamma. Domani, senza urgenza, senza stress, senza traumi, a casa sua, nel suo spazio, con la mamma, la nonna, il fratellone che ha solo sei anni in più ma resta cucciolo uguale, Vladymir. Senza code asettiche e sterili di corridoi freddi e illuminati a mezzogiorno. Avrà un codice anche lui, ad indicare la temporanea presenza sul territorio italiano, ma non se ne accorgerà perché per lui è un gioco dove tutti finalmente gli sorridono, gli regalano qualcosa, gli fanno una carezza. Il suo tampone, per i benpensanti, uscirà negativo.
Maria, da qualche anno in Italia, aspetta lo sbarco del traghetto. Arriva sua figlia con i suoi due figlioli, i nipotini di Maria; sono in viaggio da una settimana e finalmente li rivedrà, salvi, vivi. Immagino i chilometri che da Ischia ha immaginato di percorrere, cuore di mamma e cuore di nonna, immagino il sussulto ad ogni notifica sul cellulare e quella stramaledetta applicazione che ti segnala se vicino casa tua sta per cadere una bomba. Immagino che abbia aspettato qui la figlia con i nipotini, vivendo l’ansia e il terrore di chilometro in chilometro. Ma posso solo immaginarlo. Maria lo vive, Maria, che nell’attesa del traghetto accenna ad un sorriso di circostanza. Qualcuno fa una battuta, qualcuno sdrammatizza, Maria sposta gli angoli delle labbra all’insù, sembra un sorriso, gli occhi restano atterriti. Ha un dolore che profuma di dignità, se lo tiene stretto come un cubetto di ghiaccio, fa così freddo, oggi, che nessuno si chiederà perché trema.
Sott’occhi osserva se qualcuno la guarda, resta un passo indietro rispetto al gruppetto e fissa l’imboccatura del porto. Mi avvicino, è un pezzo di legno, quercia secolare che ha perduto le foglie troppo presto per cercare una terra migliore. Il tempo di dirle “consentimi di abbracciarti”, scioglie la tensione, il terrore, la paura, in due lacrime composte, che a stento si distinguono nel pallore del suo volto. Le porgo un fazzoletto che prende girandosi, la copro dagli sguardi. Il tempo di dirle “è solo un caso che sia successo a voi, poteva succedere anche a noi, l’importante ora è che siamo vivi e insieme”. Lei annuisce, si fa forza, tira su col naso e dice “sono tanti i parenti che sono rimasti in Ucraina e che non sento da molti, troppi, giorni”. Stringe tra le mani quel che resta del fazzoletto di carta e guarda dritto il portellone che si abbassa, un pezzo di lei è lì ed è salvo. Per ora conta questo.
Victoria, 10 mesi, scende anche lei dal traghetto abbarbicata come un koala alla sua giovanissima mamma. Tutto ciò che le serve lo ha avuto addosso, in quel corpo minuto che l’ha tenuta in braccio da quando sono partite. Scendono con uno zainetto, senza passeggino, senza trolley.
Vladimir un ragazzino dal volto già adulto, scende tenendo per mano il fratellino di 6 anni. Si fermano al capannello che si è formato per il benvenuto e lo smistamento; gli dico “ma non hai freddo?” e penso tra me e me “tutti uguali questi adolescenti, pulloverino e via”, non capisce, si scusa in un inglese migliore del mio, gli tocco il pullover fino e mimo il gesto del tremare aiutandomi con le braccia. Mentre penso a dove andare a prendere un giubbino, lui si toglie lo zaino dalle spalle, lo apre e mi mostra il suo giubbottino ripiegato. Più per fare un piacere ad una mamma brontolona che per convinzione, decide di indossarlo, con una smorfia a metà tra lo stizzito e l’orgoglioso, gli sorrido per ringraziarlo di aver coperto, se pure parzialmente, il mio vago senso di colpa di non essere dall’altra parte. La sua.
Zahar, due mesi, un batuffolo arrivato qui col calar del sole, la sua giovanissima mamma, due zie ed una nonna che già stava ad Ischia e lavorava per loro. Zahar non è solo un bellissimo bambino ma è anche un nome poliedrico e suggestivo. Dal rumeno significa zucchero, in arabo è luce del mattino, in ebraico è “Yahweh ricorda” o “ricordato dal Signore”. Francamente, con tutte le tutine che ha avuto, i bavaglini, le scarpette, lo scalda biberon le tante piccole utili cose che circondano un bimbo appena nato, credo che il Signore ha mantenuto la sua promessa.
Alloggi di fortuna, camere presso il convento, stanze di amici, parenti, conoscenti, volontari, ospitanti. Chi vuole e può, fa. E chi non fa pontifica, ma questa è un’altra storia, vecchia come il mondo.
Si fa, si fa rete, si fa condivisione, si fa ponte. Dai medici pediatri, alle scuole di ogni ordine e grado, lo sportello ASL per l’emergenza ucraina, la registrazione temporanea presso la pubblica sicurezza. E poi la raccolta e la distribuzione di indumenti, generi di prima necessità, alimenti a lunga scadenza, medicinali. La piccola comunità isolana diventa un gigante dalle grandi braccia e dalle molte dita, che chiede per dare, che dà per prendere. Prendere sorrisi, dividere la stanchezza, smezzarsi terrori e paure inespresse e moltiplicare sogni di un oggi migliore, di occhi negli occhi, di silenzi.
Ad uno dei punti di smistamento si divide il raccolto, provento di donazioni e acquisti: una parte viaggerà attraversando lo stivale per giungere lì dove gli uomini sono rimasti a difendere la loro terra, una parte resterà qui per essere divisa tra i presenti che hanno trovato riparo. Tra chi resta qui avviene lo scambio, di storie, episodi, esempi, resilienze, dignità ed anche l’arte sopraffina di “fare” in assenza di aspettative. “Non ho bisogno di niente”, sembra un mantra, te lo fanno leggere dal display del cellulare impostato su Google traduttore dall’ucraino all’italiano e mentre metti a fuoco la scritta, schivano lo sguardo. Ed anche il tuo si perde.
È solo un caso che Google traduttore sia impostato dall’ucraino all’italiano, con un tocco del dito pigiato sul “aggiorna” si può ribaltare la maschera home e impostare dall’italiano all’ucraino. Lo faccio, vincendo la ritrosia, digito “è solo un caso che sia successo a voi e non a noi”. це просто збіг, що це сталося з тобою, а не зі мною – “questa è casa vostra” – це твій дім
Non hai bisogno di niente quando il niente è tutto quello che hai. E quando è così, hai bisogno di tutto quello che arriva. La solidarietà si allarga a macchia d’olio, senza proclami né grandi appelli, con la sola testimonianza del fare. C’è chi traduce, c’è chi smista gli indumenti per taglia e sesso, c’è chi aggancia medici e pediatri, c’è chi accompagna, chi telefona, chi ringrazia. C’è. Quale che sia la forma, il percorso, c’è.
Anna, Constantin, Vladi, Dmytro che si fa chiamare Dima, e tutti quelli che per grazia di Dio riusciamo a incontrare, accorciando le naturali distanze di sicurezza, la loro ritrosia, la non meglio specificata paura di essere schedati con l’incognita che possano essere rispediti in una terra che ha perduto tutto, ma soprattutto loro, vengono inseriti nelle scuole dove esistono degli angeli custodi chiamati professori, insegnanti, segretarie, vice presidi, presidi, collaboratori. Elementari, Materne, Medie, Superiori. Qui, nelle classi, accadono piccoli inspiegabili prodigi, miracoli che solo gli animi puri possono compiere. I bambini non conoscono separazione di sorta né distinzione di etnia e se ne incontrano qualcuna, si arrampicano alle barriere per scavalcarle. Loro fanno la guerra e la fanno a modo loro, così hanno già vinto. Si armano fino ai denti di cellulari e applicazioni per tradurre, italiano-ucraino e ucraino-italiano, tutti in classe si sono armati ed hanno pure contagiato. Anche i prof partono da casa armati, arrivano a scuola con nuove schede, applicazioni, siti da trasmettere alla lim. Così che tutti in classe possano vincere la guerra dei grandi, come solo i piccoli sanno fare. Si dividono i colori, le matite, le merende, i sogni, che si sa, non parlano né ucraino né italiano. Gli ucraini imparano l’italiano e gli italiani apprendono l’ucraino.
Tra le armi segrete dimostratasi vincente c’è David e come lui ce ne sono tante, che è nato a Ischia ed ha viaggiato nel pancione della sua mamma quando sono partiti dall’Ucraina. David è cresciuto conservando la memoria della sua lingua d’origine. Oggi si improvvisa piccolo e preziosissimo interprete tra una materia e l’altra, tra una classe e l’altra e accorcia sempre di più le distanze tra quelli che parlano una lingua e quelli che ne parlano un’altra. Non è un prodigio che ci siano bimbi che le parlano tutte e due? Tra le armi segrete per la distruzione di massa dell’ignoranza e della ingiustizia, (sperando che vengano rase al suolo) ci sono le mamme, le nonne, le zie, già residenti a Ischia da qualche anno, che si sono offerte da traduttore umano, più empatiche di una app, a costo zero, direi, direi e con il 3×2, che di questi tempi, con gli scaffali vuoti, è una grande offerta. 3 parole esatte 2 abbracci con sorriso. Sull’accoglienza, l’integrazione, potremmo anche dire “buona la prima”, l’auspicio ora è che a breve possano sentirsi realmente a casa loro. I bambini ci insegneranno come fare, loro già vanno alla lavagna e si dividono i compiti, l’italiano scrive in ucraino e l’ucraino scrive in italiano. I più piccini si spartiscono le costruzioni sul banchetto colorato. Constantin 5 anni, dirà alla sua mamma “è bello qui perché dopo che hai giocato vai a casa e non ti costringono a dormire”. In questa casa che a pensarci bene, non è né nostra né loro: siamo tutti ospiti sul pianeta terra e sentirsi a casa è e resta una sensazione di benessere, uno stato d’animo: facciamo che anche loro si sentano a casa loro o se proprio non riusciamo, impariamo da loro a sentirci a casa nostra. Tutti.