Commento al Vangelo Lc 15,11-32
Dopo averci raccontato chi non è Dio, Gesù inizia a raccontare qual è il volto del Padre, quale Dio lui è venuto a dirci. È questo il motivo della vera gioia: sapere quale Dio mi è affianco nel cammino della vita.
È come se in questa quarta domenica detta “della gioia”, la liturgia ci dicesse: “Guarda che la notizia più bella ancora devi scoprirla”. Perché Gesù racconta questa parabola? Avete sentito che i farisei mormorano sul fatto che lui “accoglie” i peccatori e i pubblicani.
Questa parabola si trova nel cuore esatto del Vangelo di Luca, potremmo dire che insieme alla parabola della pecora smarrita e della moneta perduta siamo nel cuore del Vangelo. La storia la conosciamo tutti ma voglio riprenderla brevemente per sottolineare alcuni dettagli.
Ci sono due figli e chiaramente il contesto della parabola ci dice che questi due figli siamo noi, siamo l’umanità nel contesto delle relazioni. Il primo figlio ha un’idea precisa di Dio: Dio è la rovina dell’umanità, se Dio c’è io sono perduto, Dio è colui che mi impedisce di essere veramente libero e felice. È interessante notare la sottigliezza della psicologia di Luca: questo figlio prima chiede al padre la sua eredità, cosa a cui non ha assolutamente diritto, e poi dopo poco pone una grande distanza fra lui e il padre.
Egli non vuole il padre ma l’eredità. Il paradosso è che il figlio minore vuole l’eredità non vuole Dio ma la sua l’eredità. Non è così anche per la nostra umanità? Vogliamo tutte le cose che Dio ci ha dato, la natura, l’armonia, l’equilibrio, il senso, l’etica ma senza Dio; quando poi ci allontaniamo da Dio succede che noi stessi diventiamo metro di tutto, e quindi i nostri appetiti, i nostri desideri, le nostre voglie diventano metro della nostra felicità. In fondo so io cosa voglio per essere felice.
Ma vediamo che cosa succede: l’uomo diventa l’unico punto di riferimento di se stesso. Ma come spesso accade, passata l’euforia, quando gli amici ci stanno vicino perché sei pieno di soldi, arriva la carestia e questo giovane figlio idealista che pensa di essere più furbo del padre, di saperne di più, di essere finalmente libero, si ritrova nella miseria più totale, si ritrova nel deserto più totale e addirittura si trova a pascolare i porci.
I porci in Israele sono animali impuri. Vorrebbe mangiare le ghiande ma nessuno gliene da. È terrificante questo dettaglio: si rende conto che a nessuno gli frega di lui, poteva benissimo morire. A questo punto dice Luca che rientra in sé stesso (l’atteggiamento della quaresima) ma perché ha fame; si fa i conti in tasca e sappiamo benissimo che molto spesso quando ci manca qualcosa ci avviciniamo a Dio, e dice: “Ma che scemo che sono; a casa mia anche l’ultimo dei lavoranti alla fine di una giornata ha da mangiare e io qui muoio di fame!”.
A questo punto prende una decisione; io sono contrario all’interpretazione che lo vede pentito. Non è pentito, è affamato, anzi addirittura pensa ancora una volta come fregare il vecchio; sa che ha la coda di paglia, sa che ha sbagliato e quindi ora pensa di andare lì, fare la sceneggiata, pensa di dire che non è più degno affinché gli diano da mangiare. Ancora non ha minimamente capito chi sia veramente suo padre, non ha capito nulla di Dio né prima né dopo. Si alza e parte.
Il padre lo vede da lontano, gli corre incontro, cosa piuttosto inusuale per un padre. Un padre non si umilia mai per andare incontro agli altri, tantomeno un figlio di quel genere; quando sta per abbracciarlo e l’altro inizia la tiritera il padre lo stoppa.
È molto bella una riflessione che condivido con don Valentino di Sturla e che mi è piaciuta molto, dice: “Il figlio minore pensa: andrò da mio padre e gli dirò ho peccato contro il cielo e contro di te, trattami come uno dei tuoi servi. Il padre lo interrompe dopo che lui ha iniziata la tiritera e non gli dice che sarà trattato come uno dei suoi servi perché non possiamo dire a Dio cosa deve fare di noi e infatti gli restituisce la dignità, lo fa figlio, non chiede conto dei soldi, non gli rinfaccia, non fa l’offeso”. È incredibile. Questo padre inizia a far festa.
È fin troppo esagerato anche ai nostri occhi, sicuramente lo è agli occhi del figlio maggiore. La parabola infatti ci parla del figlio numero due, quello che ci assomiglia tanto, ci assomiglia talmente tanto che per secoli questa parabola è stata chiamata la parabola del figliol prodigo come se ce ne fosse solo uno di figli.
L’altro è quello che, come noi, sta col padre da sempre, che ha camminato con lui, che ha costruito con lui, che crede in lui, che vive in parrocchia, che aiuta, che cammina, che è serio e che a un certo punto resta un po’ basito perché si rende conto (e la parabola su questo è abbastanza feroce) che lui è stato sì tutta la vita nella via del padre, ma pensando in fondo che il padre fosse uno da tenere buono, come dire, una specie di despota; e quando sente questa profonda ingiustizia (io gli do ragione, anch’io mi sarei piuttosto arrabbiato) non vuole entrare.
Il padre esce fuori a spiegargli le sue ragioni e lui dice al padre che è tornato “questo suo figlio” che ha divorato i suoi soldi con le prostitute (questo non è scritto nella parabola ma lui carica un po’), che il padre riaccoglie per fare festa e che a lui neanche un capretto gli ha mai dato. “Guarda me l’avessi mai chiesto” – avrebbe potuto dire il padre.
È pieno di rancore questo figlio obbediente, ma frustrato, fa il bravo ragazzo ma non è convinto, anche lui ha buttato una maschera orribile addosso al padre. Lui ha un’idea strana del padre, ha un’idea strana di Dio: Dio deve tener conto di quello che faccio per lui. È terribile che invece di gioire anche lui del figlio che è tornato, del fratello che è tornato, non gli rivolge nemmeno la parola. Ma ora lasciamo questi due cretini e guardiamo invece al vero protagonista della parabola: il padre.
È lui il vero protagonista, questo padre/madre che non vieta al figlio minore di andare via di casa (io avrei sbattuto i pugni, avrei impedito a mio figlio di andarsene), gli da addirittura l’eredità (i due terzi andavano al primo figlio e il restante al secondo), non ha paura di correre questo rischio educativo, non lo ostacola perché sa che ormai ha una pessima idea di lui e non gliela può cambiare, forse sbattendo il naso e così qualcosa imparerà.
Così accade ma il padre non è rancoroso, non l’ha dimenticato, scruta l’orizzonte tutte le mattine. Pensate le case al tempo di Gesù erano tutte di un solo piano, quindi per scrutare l’orizzonte si doveva salire sul tetto. Guardate questo padre che appunto gli corre incontro, che sa benissimo quante scuse ha questo figlio, sa che non ha ancora capito ma non gli importa, almeno è lì per dargli un’altra opportunità e non solo, ancora di più sullo strappo fa un ricamo.
Sconvolge l’anello al dito perché era il sigillo di appartenenza, la password del conto bancario. Guardate a questo padre che esce fuori a convincere il figlio maggiore (io sarei uscito gli avrei dato due sberle e gli avrei detto adesso entra poi ne parliamo). Il padre ad entrambi dice “bisognava far festa!” Questo verbo è bellissimo; bisognava far festa, bisognava, è un obbligo. È vivo tuo fratello e quindi non importa tutto quello che è successo, non gli va incontro rimproverandolo, non lo umilia e va anche dal secondo fratello non dicendogli sei un idiota o sei uno stupido o sei geloso, ma: bisognava far festa. Dietro tutte le ragioni c’è il desiderio che Dio ha per tutti noi di far festa.
Ecco, dice Gesù, così è il nostro Dio, un Dio che corre il rischio di non essere capito, un Dio che corre il rischio di essere ignorato, un Dio che veramente corre il rischio di essere abbandonato e dimenticato. E io mi chiedo: siamo disposti ad accettare un Dio così tanto esagerato? Allora è troppo facile, uno fa tutto il cretino, il disgraziato e poi quando torna si pente; tutti discorsi idioti che facciamo noi e che Gesù non fa. Smettiamo di guardare i due figli e guardiamo al padre.
Mi chiedo e vi chiedo se siamo disposti ad accogliere questo Dio così tanto, così esagerato. Infine la parabola non finisce perché così è la nostra vita, non ci sono happy end all’americana, non si dice se il figlio minore finalmente capisce chi fosse il padre né si dice se il figlio maggiore finalmente entrò e fece festa. È come se la parabola ci dicesse: “Fai la tua scelta, tieniti il dio un po’ despota, il dio a cui obbedire strettamente, giustiziere, severo con gli altri e meno con me, oppure accogli il Dio che invece Gesù è venuto a raccontare”.
Buona domenica!
Correlati
La gioia che nasce dal sapere chi è Dio!
Commento al Vangelo Lc 15,11-32
Dopo averci raccontato chi non è Dio, Gesù inizia a raccontare qual è il volto del Padre, quale Dio lui è venuto a dirci. È questo il motivo della vera gioia: sapere quale Dio mi è affianco nel cammino della vita.
È come se in questa quarta domenica detta “della gioia”, la liturgia ci dicesse: “Guarda che la notizia più bella ancora devi scoprirla”. Perché Gesù racconta questa parabola? Avete sentito che i farisei mormorano sul fatto che lui “accoglie” i peccatori e i pubblicani.
Questa parabola si trova nel cuore esatto del Vangelo di Luca, potremmo dire che insieme alla parabola della pecora smarrita e della moneta perduta siamo nel cuore del Vangelo. La storia la conosciamo tutti ma voglio riprenderla brevemente per sottolineare alcuni dettagli.
Ci sono due figli e chiaramente il contesto della parabola ci dice che questi due figli siamo noi, siamo l’umanità nel contesto delle relazioni. Il primo figlio ha un’idea precisa di Dio: Dio è la rovina dell’umanità, se Dio c’è io sono perduto, Dio è colui che mi impedisce di essere veramente libero e felice. È interessante notare la sottigliezza della psicologia di Luca: questo figlio prima chiede al padre la sua eredità, cosa a cui non ha assolutamente diritto, e poi dopo poco pone una grande distanza fra lui e il padre.
Egli non vuole il padre ma l’eredità. Il paradosso è che il figlio minore vuole l’eredità non vuole Dio ma la sua l’eredità. Non è così anche per la nostra umanità? Vogliamo tutte le cose che Dio ci ha dato, la natura, l’armonia, l’equilibrio, il senso, l’etica ma senza Dio; quando poi ci allontaniamo da Dio succede che noi stessi diventiamo metro di tutto, e quindi i nostri appetiti, i nostri desideri, le nostre voglie diventano metro della nostra felicità. In fondo so io cosa voglio per essere felice.
Ma vediamo che cosa succede: l’uomo diventa l’unico punto di riferimento di se stesso. Ma come spesso accade, passata l’euforia, quando gli amici ci stanno vicino perché sei pieno di soldi, arriva la carestia e questo giovane figlio idealista che pensa di essere più furbo del padre, di saperne di più, di essere finalmente libero, si ritrova nella miseria più totale, si ritrova nel deserto più totale e addirittura si trova a pascolare i porci.
I porci in Israele sono animali impuri. Vorrebbe mangiare le ghiande ma nessuno gliene da. È terrificante questo dettaglio: si rende conto che a nessuno gli frega di lui, poteva benissimo morire. A questo punto dice Luca che rientra in sé stesso (l’atteggiamento della quaresima) ma perché ha fame; si fa i conti in tasca e sappiamo benissimo che molto spesso quando ci manca qualcosa ci avviciniamo a Dio, e dice: “Ma che scemo che sono; a casa mia anche l’ultimo dei lavoranti alla fine di una giornata ha da mangiare e io qui muoio di fame!”.
A questo punto prende una decisione; io sono contrario all’interpretazione che lo vede pentito. Non è pentito, è affamato, anzi addirittura pensa ancora una volta come fregare il vecchio; sa che ha la coda di paglia, sa che ha sbagliato e quindi ora pensa di andare lì, fare la sceneggiata, pensa di dire che non è più degno affinché gli diano da mangiare. Ancora non ha minimamente capito chi sia veramente suo padre, non ha capito nulla di Dio né prima né dopo. Si alza e parte.
Il padre lo vede da lontano, gli corre incontro, cosa piuttosto inusuale per un padre. Un padre non si umilia mai per andare incontro agli altri, tantomeno un figlio di quel genere; quando sta per abbracciarlo e l’altro inizia la tiritera il padre lo stoppa.
È molto bella una riflessione che condivido con don Valentino di Sturla e che mi è piaciuta molto, dice: “Il figlio minore pensa: andrò da mio padre e gli dirò ho peccato contro il cielo e contro di te, trattami come uno dei tuoi servi. Il padre lo interrompe dopo che lui ha iniziata la tiritera e non gli dice che sarà trattato come uno dei suoi servi perché non possiamo dire a Dio cosa deve fare di noi e infatti gli restituisce la dignità, lo fa figlio, non chiede conto dei soldi, non gli rinfaccia, non fa l’offeso”. È incredibile. Questo padre inizia a far festa.
È fin troppo esagerato anche ai nostri occhi, sicuramente lo è agli occhi del figlio maggiore. La parabola infatti ci parla del figlio numero due, quello che ci assomiglia tanto, ci assomiglia talmente tanto che per secoli questa parabola è stata chiamata la parabola del figliol prodigo come se ce ne fosse solo uno di figli.
L’altro è quello che, come noi, sta col padre da sempre, che ha camminato con lui, che ha costruito con lui, che crede in lui, che vive in parrocchia, che aiuta, che cammina, che è serio e che a un certo punto resta un po’ basito perché si rende conto (e la parabola su questo è abbastanza feroce) che lui è stato sì tutta la vita nella via del padre, ma pensando in fondo che il padre fosse uno da tenere buono, come dire, una specie di despota; e quando sente questa profonda ingiustizia (io gli do ragione, anch’io mi sarei piuttosto arrabbiato) non vuole entrare.
Il padre esce fuori a spiegargli le sue ragioni e lui dice al padre che è tornato “questo suo figlio” che ha divorato i suoi soldi con le prostitute (questo non è scritto nella parabola ma lui carica un po’), che il padre riaccoglie per fare festa e che a lui neanche un capretto gli ha mai dato. “Guarda me l’avessi mai chiesto” – avrebbe potuto dire il padre.
È pieno di rancore questo figlio obbediente, ma frustrato, fa il bravo ragazzo ma non è convinto, anche lui ha buttato una maschera orribile addosso al padre. Lui ha un’idea strana del padre, ha un’idea strana di Dio: Dio deve tener conto di quello che faccio per lui. È terribile che invece di gioire anche lui del figlio che è tornato, del fratello che è tornato, non gli rivolge nemmeno la parola. Ma ora lasciamo questi due cretini e guardiamo invece al vero protagonista della parabola: il padre.
È lui il vero protagonista, questo padre/madre che non vieta al figlio minore di andare via di casa (io avrei sbattuto i pugni, avrei impedito a mio figlio di andarsene), gli da addirittura l’eredità (i due terzi andavano al primo figlio e il restante al secondo), non ha paura di correre questo rischio educativo, non lo ostacola perché sa che ormai ha una pessima idea di lui e non gliela può cambiare, forse sbattendo il naso e così qualcosa imparerà.
Così accade ma il padre non è rancoroso, non l’ha dimenticato, scruta l’orizzonte tutte le mattine. Pensate le case al tempo di Gesù erano tutte di un solo piano, quindi per scrutare l’orizzonte si doveva salire sul tetto. Guardate questo padre che appunto gli corre incontro, che sa benissimo quante scuse ha questo figlio, sa che non ha ancora capito ma non gli importa, almeno è lì per dargli un’altra opportunità e non solo, ancora di più sullo strappo fa un ricamo.
Sconvolge l’anello al dito perché era il sigillo di appartenenza, la password del conto bancario. Guardate a questo padre che esce fuori a convincere il figlio maggiore (io sarei uscito gli avrei dato due sberle e gli avrei detto adesso entra poi ne parliamo). Il padre ad entrambi dice “bisognava far festa!” Questo verbo è bellissimo; bisognava far festa, bisognava, è un obbligo. È vivo tuo fratello e quindi non importa tutto quello che è successo, non gli va incontro rimproverandolo, non lo umilia e va anche dal secondo fratello non dicendogli sei un idiota o sei uno stupido o sei geloso, ma: bisognava far festa. Dietro tutte le ragioni c’è il desiderio che Dio ha per tutti noi di far festa.
Ecco, dice Gesù, così è il nostro Dio, un Dio che corre il rischio di non essere capito, un Dio che corre il rischio di essere ignorato, un Dio che veramente corre il rischio di essere abbandonato e dimenticato. E io mi chiedo: siamo disposti ad accettare un Dio così tanto esagerato? Allora è troppo facile, uno fa tutto il cretino, il disgraziato e poi quando torna si pente; tutti discorsi idioti che facciamo noi e che Gesù non fa. Smettiamo di guardare i due figli e guardiamo al padre.
Mi chiedo e vi chiedo se siamo disposti ad accogliere questo Dio così tanto, così esagerato. Infine la parabola non finisce perché così è la nostra vita, non ci sono happy end all’americana, non si dice se il figlio minore finalmente capisce chi fosse il padre né si dice se il figlio maggiore finalmente entrò e fece festa. È come se la parabola ci dicesse: “Fai la tua scelta, tieniti il dio un po’ despota, il dio a cui obbedire strettamente, giustiziere, severo con gli altri e meno con me, oppure accogli il Dio che invece Gesù è venuto a raccontare”.
Buona domenica!
Correlati
Condividi su:
Don Cristian Solmonese
Seguici su:
Articoli recenti
N° 47 – Anno 11 – Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità – 23 novembre 2024
Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità
I 1700 anni del Credo di Nicea
Lettera del Santo Padre Francesco per il ricordo nelle chiese particolari dei propri santi, beati, venerabili e servi di Dio
Categories
Articoli correlati
N° 47 – Anno 11 – Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità – 23 novembre 2024
CLICCA E SCARICA IL KAIRE IN ALTA RISOLUZIONE
Condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità
Roma, 15-17 novembre 2024 “Partiti dalle nostre Chiese locali ci siamo riuniti qui a Roma, la Chiesa di Pietro e Paolo, per inserirci nell’ininterrotta corrente spirituale che scaturì dal mandato
I 1700 anni del Credo di Nicea
“Occasione straordinaria per essere una luce di speranza nell’oscurità di un mondo diviso e ferito” Il 2025 è l’anno in cui ricorrerà il 1700° anniversario del Primo Concilio Ecumenico di
Lettera del Santo Padre Francesco per il ricordo nelle chiese particolari dei propri santi, beati, venerabili e servi di Dio
Con l’Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate ho voluto riproporre ai fedeli discepoli di Cristo del mondo contemporaneo la chiamata universale alla santità. Essa è al centro dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, il quale