Tutta l’attenzione data alla parola di Dio però da sola non basta. Su di essa deve scendere “la forza dall’alto”. Nell’Eucaristia, l’azione dello Spirito Santo non è limitata soltanto al momento della consacrazione, all’epiclesi che si recita prima di essa. Lo Spirito Santo continua, nella Chiesa, l’azione del Risorto che, dopo la Pasqua, ”apriva la mente dei discepoli all’intelligenza delle Scritture” (cf. Lc 24,45). La Scrittura, dice la Dei Verbum del Concilio Vaticano II, “deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta” . Nella liturgia della parola l’azione dello Spirito Santo si esercita mediante l’unzione spirituale presente in chi parla e in chi ascolta.
“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18). Gesù ha indicato così da dove trae la sua forza la parola annunciata. Sarebbe un errore fare affidamento solo sull’unzione sacramentale che abbiamo ricevuto una volta per tutte nell’ordinazione sacerdotale o episcopale.
Questa ci abilita a compiere certe azioni sacre, come governare, predicare e amministrare i sacramenti. Ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente qualcosa di quella autorità che le folle avvertivano quando parlava Gesù; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico! Ma se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono Suo, che possiamo fare noi per averla? Dobbiamo anzitutto partire da una certezza: “Noi abbiamo ricevuto l’unzione dal Santo”, ci assicura san Giovanni (1Gv 2,20). Cioè, grazie al battesimo e alla cresima – e, per alcuni, l’ordinazione presbiterale o episcopale – noi possediamo già l’unzione.
Anzi, secondo la dottrina cattolica, essa ha impresso nella nostra anima un carattere indelebile, come un marchio o un sigillo: “È Dio stesso – scrive l’Apostolo – che ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Cor 1, 21-22). Questa unzione però è come un unguento profumato racchiuso in un vaso: rimane inerte e non sprigiona alcun profumo se non si rompe e non si apre il vaso. Così avvenne del vasetto di alabastro rotto dalla donna del vangelo, il cui profumo riempì tutta la casa (Mc 14,3).
Ecco dove si inserisce la parte nostra circa l’unzione. Essa non dipende da noi, ma dipende da noi rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’irradiazione. Il vaso è la nostra umanità, il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa mettersi in stato di resa a Dio e di resistenza al mondo. Non tutto, per nostra fortuna, è affidato allo sforzo ascetico. Molto può, in questo caso, la fede, la preghiera, l’umile implorazione. Chiedere dunque l’unzione prima di accingerci a una predicazione o un’azione importante a servizio del Regno.
Mentre ci prepariamo alla lettura del vangelo e all’omelia, la liturgia ci fa chiedere al Signore di purificare il nostro cuore e le nostra labbra per poter annunciare degnamente il vangelo. Perché non dire qualche volta (o almeno pensare dentro di sé): “Ungi il mio cuore e la mia mente, Dio onnipotente, perché possa proclamare con la dolcezza e la potenza dello Spirito la tua parola”? L’unzione non è necessaria solo ai predicatori per proclamare efficacemente la parola, lo è anche agli ascoltatori per accoglierla.
L’evangelista Giovanni scriveva alla sua comunità: “Voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza… L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca” (1 Gv 2, 20.27). Non che sia inutile ogni ammaestramento esterno, ma esso, da solo, serve a ben poco. “E’ il maestro interiore – commenta sant’Agostino – colui che veramente istruisce; è Cristo con la sua ispirazione che insegna.
Quando manca la sua unzione, le parole esterne fanno soltanto un inutile strepito”. Speriamo che anche oggi Cristo ci abbia istruito con la sua ispirazione interiore e il mio parlare non sia stato “un inutile strepito”.
di Angela di Scala