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III Catechesi di p. Raniero Cantalamessa

Dopo la Liturgia della Parola e la Consacrazione, il terzo momento è quello della comunione, cioè quello che nella S. Messa più chiaramente esprime l’unità e l’uguaglianza fondamentale di tutti i membri del popolo di Dio, al di sotto di ogni distinzione di rango e di ministero. Fino a quel momento, è visibile la distinzione dei ministeri: nella liturgia della Parola, la distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente; nella consacrazione, la distinzione tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio universale.

Nella comunione nessuna distinzione. La comunione che riceve il semplice battezzato è identica a quella che riceve il sacerdote o il vescovo. La comunione eucaristica è la proclamazione sacramentale che, nella Chiesa, la koinonia viene prima ed è più importante della gerarchia.

Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10, 16-17). La parola “corpo” ricorre due volte nei due versetti, ma con un significato diverso.

Nel primo caso (il corpo di Cristo), corpo indica il corpo reale di Cristo, nato da Maria, morto e risorto; nel secondo caso (un corpo solo), corpo indica il corpo mistico, la Chiesa. Non si poteva dire in maniera più chiara e più sintetica che la comunione eucaristica è sempre comunione con Dio e comunione con i fratelli; che c’è in essa una dimensione, per così dire, verticale e una dimensione orizzontale.

L’Eucaristia comunione con Cristo.

“Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6, 57). La preposizione “per” (in greco, dià) ha qui valore causale e finale; indica insieme un movimento di provenienza e un movimento di destinazione. Significa che chi mangia il corpo di Cristo vive “da” lui, cioè a causa di lui, in forza della vita che proviene da lui, e vive “in vista di” lui, cioè per la sua gloria, il suo amore, il suo Regno.

Come Gesù vive del Padre e per il Padre, così, comunicandoci al santo mistero del suo corpo e del suo sangue, noi viviamo di Gesù e per Gesù. E’ infatti il principio vitale più forte che assimila a sé quello meno forte, non viceversa. E’ il vegetale che assimila il minerale, non viceversa; è l’animale che assimila e il vegetale e il minerale, non viceversa.

Così ora, sul piano spirituale, è il divino che assimila a sé l’umano, non viceversa. Sicché mentre in tutti gli altri casi è colui che mangia che assimila ciò che mangia, qui è colui che è mangiato che assimila a sé chi lo mangia: per farci diventare quello che mangiamo. Nell’Eucaristia non c’è dunque solo comunione tra Cristo e noi, ma anche assimilazione; la comunione non è solo unione di due corpi, di due menti, di due volontà, ma è assimilazione all’unico corpo, l’unica mente e volontà di Cristo. “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo Spirito” (1 Cor 6, 17).

Cerchiamo di capire le conseguenze di tutto ciò. Nella sua vita terrena Gesù non ha fatto tutte le esperienze umane possibili e immaginabili. Tanto per cominciare è stato un uomo, non era sposato, è morto giovane. Ora, grazie all’Eucaristia, lui: vive nella donna la condizione femminile, nel malato la malattia, nell’anziano l’anzianità, nel rifugiato la sua precarietà, nel bombardato il suo terrore… Non c’è nulla della mia vita che non appartenga a Cristo.

Nessuno dovrebbe dire: “Ah, Gesù non sa cosa vuol dire essere sposato, essere donna, aver perso un figlio, essere malato, essere anziano, essere una persona di colore!” Ciò che Cristo non ha potuto vivere “secondo la carne”, lo vive e “sperimenta” ora da risorto “secondo lo Spirito”, grazie alla comunione sponsale della Messa tra lo Sposo Cristo Gesù e la sua sposa la Chiesa.

Quale inesauribile motivo di stupore e di consolazione al pensiero che la nostra umanità diventa l’umanità di Cristo! Ma anche quale responsabilità da tutto ciò! Se i miei occhi sono diventati gli occhi di Cristo, la mia bocca quella di Cristo, il mio sguardo non dovrà indugiare su immagini lascive, la mia lingua non dovrà parlare contro il fratello, il mio corpo non dovrà servire come strumento di peccato. E manca ancora la parte più bella: il corpo della sposa appartiene allo sposo, ma anche il corpo dello sposo appartiene alla sposa.

Dal dare si deve passare subito, nella comunione, al ricevere. Ricevere nientemeno che la santità di Cristo! Nella comunione abbiamo la possibilità di dare a Gesù i nostri stracci sporchi e ricevere da lui il “manto della giustizia” (Is 61, 10). È scritto infatti che egli “per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (cf 1 Cor 1, 30). Bisogna soltanto ricordare una cosa: noi apparteniamo a Cristo per diritto, egli appartiene a noi per grazia!È una scoperta capace di mettere le ali alla nostra vita spirituale. Questo è il colpo d’audacia della fede e dovremmo pregare Dio di non permettere che moriamo prima di averlo realizzato.

L’Eucaristia, comunione con la Trinità.

Riflettere sull’Eucaristia è come vedersi spalancare davanti, a mano a mano che si avanza, orizzonti sempre più vasti che si aprono uno sull’altro, a perdita di vista. L’orizzonte cristologico della comunione che abbiamo contemplato fin qui si apre infatti su un orizzonte trinitario. In altre parole, attraverso la comunione con Cristo noi entriamo in comunione con tutta la Trinità. Nella sua “preghiera sacerdotale”, Gesù dice al Padre: “Che siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me” (Gv 17, 23). Quelle parole: “Io in loro e tu in me”, significano che Gesù è in noi e che in Gesù c’è il Padre. Non si può, perciò, ricevere il Figlio, senza ricevere, con lui, anche il Padre. La parola di Cristo: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14, 9) significa anche “chi riceve me riceve il Padre”.

Il motivo ultimo di ciò è che: Padre, Figlio e Spirito Santo sono un’unica e inseparabile natura divina, sono “una cosa sola”. Il Figlio vive in virtù del Padre e noi viviamo in virtù della sua umanità. Ciò che si dice del Padre vale anche dello Spirito Santo. Nell’Eucaristia si ha una replica sacramentale di ciò che è avvenuto storicamente nella vita terrena di Cristo.

Al momento della sua nascita terrena, è lo Spirito Santo che dona al mondo il Cristo (Maria, infatti, concepì per opera dello Spirito Santo!); al momento della morte, è Cristo che dona al mondo lo Spirito Santo: morendo, egli “emise lo Spirito”. Similmente, nell’Eucaristia, al momento della consacrazione è lo Spirito Santo che ci dona Gesù, poiché è per la sua azione che il pane si trasforma nel corpo di Cristo; al momento della comunione è Cristo che, venendo in noi, ci dona lo Spirito Santo. Nella comunione Gesù viene a noi come colui che dona lo Spirito.

Non come colui che un giorno, tanto tempo fa, diede lo Spirito, ma come colui che ora, consumato il suo sacrificio sull’altare, di nuovo, “emette lo Spirito” (cf Gv 19, 30). Tutto questo che ho detto sulla Trinità e l’Eucaristia è riassunto visivamente nell’icona ortodossa di Rublev dei tre Angeli intorno all’altare. Tutta la Trinità ci dona l’Eucaristia e si dona a noi nell’Eucaristia. L’Eucaristia non è solo la nostra Pasqua quotidiana; è anche la nostra Pentecoste quotidiana!

La comunione degli uni con gli altri.

Da queste altezze vertiginose, torniamo adesso sulla terra e passiamo alla seconda dimensione della comunione eucaristica: la comunione con il corpo di Cristo che è la Chiesa. Sviluppando un pensiero già abbozzato nella Didachè, sant’Agostino vede una analogia nel modo in cui si formano i due corpi di Cristo: quello eucaristico e quello ecclesiale.

Nel caso dell’Eucaristia, abbiamo il grano dapprima disperso sui colli, che trebbiato, macinato, impastato in acqua e cotto al fuoco diventa il pane che arriva sull’altare; nel caso della Chiesa, abbiamo la moltitudine delle persone che riunite dalla predicazione evangelica, macinate dai digiuni e dalla penitenza, impastate in acqua nel battesimo e cotte al fuoco dello Spirito, formano il corpo che è la Chiesa.

Immediatamente ci viene incontro, a questo proposito, la parola di Cristo: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24). Se tu vai a ricevere la comunione, ma hai offeso un fratello o una sorella e non ti sei riconciliato, nutri rancore, tu somigli – diceva ancora sant’Agostino al popolo – a una persona che vede arrivare un amico che non vede da anni. Corre a incontrarlo, si alza sulla punta dei piedi per baciarlo sulla fronte… Ma nel fare questo non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate. I fratelli e le sorelle sono piedi di Gesù che ancora cammina sulla terra.

Comunione con i poveri.

Questo vale in modo speciale nei riguardi dei poveri, degli afflitti, degli emarginati. Colui che ha detto del pane: “Questo è il mio corpo”, lo ha detto anche del povero. Lo ha detto quando, parlando di ciò che si è fatto per l’affamato, l’assetato, il prigioniero e il nudo, ha dichiarato solennemente: “Lo avete fatto a me!”. Questo è come dire: “Io ero l’affamato, io ero l’assetato, io ero lo straniero, il malato, il prigioniero” (cf Mt 25, 35 ss.).

Ho ricordato altre volte il momento in cui questa verità quasi esplose dentro di me. Ero in missione in un paese molto povero. Attraversando le vie della capitale vedevo dappertutto bambini coperti da pochi stracci sporchi, che correvano dietro i camion delle immondizie per cercare qualcosa da mangiare. A un certo momento era come se Gesù diceva a me: “Guarda bene: quello è il mio corpo!”. C’era da averne il fiato mozzo.

Al giorno d’oggi, la situazione in cui uno ha fame e un altro scoppia di cibo non è più un problema locale, ma mondiale. Non ci può essere niente in comune tra la cena del Signore e il pranzo del ricco epulone, dove il padrone banchetta lautamente, ignorando il povero che sta fuori della porta (cf Lc 16, 19 ss.). La preoccupazione di condividere ciò che si ha con chi è nel bisogno, vicini e lontani, deve essere parte integrante della nostra vita eucaristica.

Non c’è nessuno che, volendo, non possa, durante la settimana, compiere uno di quei gesti di cui Gesù dice: “Lo avete fatto a me”. Condividere non significa semplicemente “dare qualcosa”: pane, vestito, ospitalità; significa anche visitare qualcuno: un prigioniero, un malato, un anziano solo. Non è dare solo del proprio denaro, ma anche del proprio tempo. Il povero e il sofferente hanno bisogno di solidarietà e di amore, non meno che di pane e vestito, soprattutto in questo tempo di isolamento imposto dalla pandemia.

Ogni volta che incontriamo qualcuno che soffre, specie se si tratta di certe forme estreme di sofferenza, se stiamo attenti, udremo, con gli orecchi della fede, la parola di Cristo: “Questo è il mio corpo!”. Concludo con una piccola storia che ho letto da qualche parte. Un uomo vede una bambina denutrita, scalza e tremante di freddo e grida a Dio quasi con rabbia: “O Dio perché non fai qualcosa per quella bambina?”. Dio gli risponde: “Certo che ho fatto qualcosa per quella bambina: ho fatto te! Che Dio ci aiuti a ricordarcelo al momento giusto.

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