Ci sono isole che andrebbero evitate
Daniele Silvestri
Soprattutto quando è estate
Pochi passi sul pontile
E già finire intrappolato
Come un pesce nella rete
E condividerne la sete (condividiamone la sete)
Certe isole col sole al posto giusto
Con un vento sempre fresco
Che s’insinua malizioso e disonesto
E piano piano si confonde
Nel rumore fastidioso e sempre uguale delle onde
Delle onde
Sarà che l’isola d’Ischia è davvero una di quelle isole in cui chi viene, resta ammaliato, sarà che il sole, il mare, l’aria e il panorama fanno da sfondo all’humus in cui alleviamo sogni, speranze e aspettative, sta di fatto che qui si utilizzano ingredienti di prima scelta, il cui risultato è che in questo posto, quando ci si muove, specie per andare incontro all’altro e ai suoi bisogni, specie quando sorge un’emergenza, lo si fa davvero bene.
Parliamo di azioni, incontri, riflessioni che conducono o preparano a un viaggio che non necessariamente è inteso come partire da un posto e arrivare a un altro; più spesso come movimento, cammino, uscita. Ci siamo mossi, a gruppi, singolarmente, a piccole realtà; si è creato un movimento che ha investito tutta l’isola, scuole, famiglie, istituzioni ed è partito dal porto. Non quando siamo partiti, ma quando siamo arrivati e scappavamo dalla guerra. Abbiamo aspettato i primi rifugiati che sbarcavano dai traghetti ed abbracciavano una sorella che li attendeva, una mamma in trepidazione, un’amica che già era inserita nella realtà isolana. Abbiamo viaggiato immaginando la loro fuga da un posto che hanno visto distruggere e che non poteva più garantire sicurezza alle loro famiglie, abbiamo con loro conquistato il confine con mezzi di fortuna, talvolta a piedi; ci siamo fermati in un qualche campo di accoglienza per poi proseguire il cammino ed arrivare fin qui, dove qualcuno ci ha garantito ospitalità e ristoro. Abbiamo viaggiato con loro, in fila per dichiararne la presenza in un territorio straniero e poter avere i servizi minimi essenziali dalla sanità. Abbiamo offerto caramelle e cioccolatini ai più piccini, figli nostri, provati dal viaggio e dispensato sorrisi ed occhi di comprensione agli adulti, affannandoci a cercare un interprete, che si è offerta volontaria, perché lei, quel viaggio, lo ha fatto vent’anni fa e poi qui ha messo su famiglia. Abbiamo accompagnato i bambini a scuola, dai più piccoli ai più grandicelli, dall’asilo alle superiori cercando di lenire il disagio della lingua con qualche applicazione e in quella aule abbiamo gioito dei primi, timidi, determinati risultati. Abbiamo percorso avanti e indietro le strade dell’isola per poter individuare una casa, un appartamento, una stanza e garantire loro un minimo di dignità, autonomia, sostentamento.
Quando il flusso degli arrivi ha preso le forme di un’onda meno impetuosa e travolgente, ma più fluida e composta, abbiamo capito che potevamo guardare con più attenzione, più cura, ai piccoli che già erano precariamente stabili e offrire loro il ritrovarsi tutti insieme a festeggiare la loro di Pasqua, la Pasqua di tutti noi. Al palazzetto dello sport a Forio, dall’altra parte dell’isola, abbiamo viaggiato tra i colori della tradizione, tra le prelibatezze dei nostri frutti che spesso non vediamo o diamo per scontato, mentre, per chi vive in un posto dove è inverno dieci mesi l’anno, la premuta di agrumi o le banane, di cui abbiamo imbandito le tavole, diventano occasione per ringraziare Dio e festeggiare insieme. Abbiamo origliato, spettatori non paganti, i loro canti, la preghiera nella loro lingua e poco importa il non aver saputo tradurre con altre parole in lingua diversa quello che ascoltavamo. I loro occhi, le loro mani giunte, i loro volti, hanno narrato molto di più di una frase, di una considerazione, di una domanda senza risposta. Ci hanno regalato la speranza di chi si ostina a sognare ancora la pace, la libertà.
Abbiamo danzato con loro il loro canto patriottico e ci siamo commossi pensando che quel sentimento forte di appartenenza a una terra, a una storia, a una tradizione, forse non è mai entrato nelle nostre case, sui nostri comodi divani. Poi abbiamo spento le luci e mentre spazzavamo il palazzetto, restituendolo più pulito di come ce lo hanno prestato, un bimbo che potrà avere avuto dieci o dodici anni di età ma dall’animo di una età indefinita ed antica, gli occhi di chi malgrado ne abbia viste tante, le ha superate tutte, ha chiesto “posso aiutarti”? E non gli abbiamo potuto dire: vai a giocare con la tua play station perché non ha una play station, non ha un pc, non ha una stanza sua e forse il videogioco di guerra lui lo ha vissuto sulla pelle mentre teneva la mano della sua mamma e varcava il confine con un piccolo zaino, fin troppo grande per le sue spallucce.
Abbiamo viaggiato nel tempo, quando i Pink Floyd uscirono con il loro ultimo disco 28 anni fa ed ora, solo per questa stramaledetta guerra, ci hanno rimesso la faccia, con le rughe del tempo inclemente e sono rientrati in scena per cantare l’inno del Viburno rosso, che non si spezza e che, se è per qualche ragione ripiegato, si risolleverà più rigoglioso di prima. Il cantante solista di questo brano è ucraino e poiché stava combattendo al fianco dei suoi fratelli non ha potuto raggiungere il gruppo per registrare: nessun problema, hanno registrato in differita sulle scene che passavano al telegiornale e la Chitarra di David Gilmour ha fatto da strappalacrime con i suoi virtuosismi di sempre. Abbiamo viaggiato anche qui, tra la nostalgia di un tempo in cui non eravamo così assetati di giustizia ed il tempo presente nel quale abbiamo bisogno di riappacificarci con il mondo che non ha mantenuto le promesse di serenità e progresso.
Abbiamo viaggiato sulle nostre frustrazioni per l’impotenza di non riuscire a cancellare dai loro occhi il disagio di sentirsi ospiti ed abbiamo accompagnato il viaggio di chi, in silenzio, senza dire niente a nessuno per il timore di lasciarsi convincere a desistere, è ritornato a casa, dove non c’è più una casa, rispondendo al senso di colpa di aver lasciato a combattere i fratelli, i mariti, gli altri, mettendosi in salvo da qualche parte. In molti sono ripartiti, a ritroso, noi con loro, acquietando la coscienza con la speranza di aver messo i figli al riparo e poter così tornare al loro paese e rendersi utili per la causa comune.
Abbiamo viaggiato nel nostro smarrimento e tra le scene che scorrevano sui notiziari abbiamo ripercorso un cammino che sentivamo richiedeva di più, un passo in più, uno sforzo in più dell’accoglienza, della integrazione, della celebrazione, delle danze, dei colori, dei costumi intessuti a mano e della piccola, sporadica distrazione dalle brutture della guerra con momenti di sparuta serenità.
Next level, livello successivo non del tutto convinti di aver superato il precedente. Ma si sa, per quelli della nostra generazione, terminare un livello e passare a quello dopo non è del tutto essenziale, saltelliamo ugualmente da uno scenario all’altro e quand’anche il gioco non lo permette resettiamo il pc e ricominciamo.
Così abbiamo organizzato un’allerta aiuti, in tutta l’isola, beni di prima necessità, fondi, materiale medico e tutto in tempo record perché abbiamo fatto un sogno e ci abbiamo voluto viaggiare dentro. Gli uomini giusti al momento giusto, per qualche strana coincidenza (o Dioincidenza) si sono ritrovati nella maniera più imprevedibile ed impreventivabile di quanto si pensasse. E abbiamo dato i numeri. Senza giocarceli, la ruota di Kiev, nel lotto non c’è.
18 pedane, 10 tonnellate di materiale, 1 tir partito la sera prima della data prestabilita, 2 fratelli autisti, 1 ditta. Abbiamo viaggiato con loro sin da quando si sono imbarcati, con l’ultimo saluto della mano di mamma che senza dire una parola li raccomandava al Signore e pensava (giuro che gliel’ho letto nella mente) “state attenti, se vi sentite stanchi fermatevi a dormire, nutritevi, il viaggio è lungo, copritevi che la sera è umido, tornate presto, ma andate piano”. Una parte di quella mano siamo sicuri che si è infilata nel finestrino di quel camion e ha viaggiato con loro. L’altra parte di mano è restata sull’isola con il telefono in mano ad aspettare notizie e immagini su WhatsApp da condividere con il gruppo che si era creato per l’ennesimo viaggio, a lenire il cuore di mamma che trepida, trepida sempre, anche quando i figli crescono, imbiancano e diventano genitori.
Abbiamo viaggiato il giorno dopo, di buon mattino, alle prime luci dell’alba, dopo una notte insonne di ansia e perplessità con un van prestato da una ditta che si occupa di transfer turistici; sei improbabili viaggiatori che Dio solo sa come si sono ritrovati tra incontri, riunioni operative, defezioni causa covid e perplessità varie. Due sacerdoti, di cui uno ucraino, una polacca ischitanizzata, due poliziotti, un autista. Ognuno con la sua storia, ognuno con il suo perché, ognuno con il suo viaggio e la sua ricerca interiore.
Abbiamo viaggiato anche con loro, preparando in qualche modo il loro viaggio, sostenendolo lungo il percorso, condividendo sui social le loro tappe, i loro disagi ma anche il loro spirito di adattamento, le loro battute di spirito per stemperare il carico emotivo che stavano attraversando e per preparare, perché no? con la sensibilizzazione della comunità a fare di più, a riunirsi e organizzarsi meglio al loro/nostro ritorno.
Non solo chi parte, ma anche chi resta fa parte del viaggio e così anche chi è rimasto da questa parte del mare ha sostato con loro, ha riposato con loro poggiando la testa al finestrino e con loro ha percorso tutti i 4254,8 chilometri, con i paesaggi risucchiati all’indietro e ciascuno con le immagini di una vita vissuta sin lì, bilancio che spesso, quando si hanno molte ore a disposizione, si propone nella mente, tra quel che hai fatto, quel che hai lasciato a casa, le cose che hai sistemato e quelle che non sei riuscito proprio a sistemare perché hai sempre rimandato, i buoni propositi del “quando torno” e qualcuno in un angolo recondito dei pensieri carichi di stanchezza avrà certamente aggiunto “se torno”.
Non avevamo un chiaro proponimento su cosa fare una volta arrivati a Przemysl, ultima città polacca, a una manciata di chilometri dal confine con l’Ucraina, così vicino che in lontananza arrivava l’eco delle deflagrazioni, abbastanza lontano da consentire l’allestimento di un centro di prima accoglienza per tutti quelli che riuscivano a superare bombe, schivare mine e attraversare la morte. Ci siamo fermati lì affacciandoci il più possibile, con le dovute cautele, al di là del confine, sporgendosi come si fa da un precipizio solo per vedere il mare. Un mare di vita in fuga perché qualcuno ha deciso di armare la mano del fratello contro l’altro fratello. Non ce la siamo sentita di correre il rischio di perdere un compagno di viaggio, che poiché ucraino, sarebbe stato chiamato in patria perché utile alla causa. Ci siamo fermati un passo prima, un respiro prima, offrendo la frustrazione e il logorante quanto impostore senso di impotenza e vigliaccheria in una celebrazione eucaristica in chiesa polacca, con il proponimento di riorganizzarci meglio e un po’ di più quando abbiamo sentito che al centro di prima accoglienza che abbiamo visitato non scarseggiavano i passeggini, i pannolini, le bende ed i cerotti. MA IL CIBO. Non avevano ancora ripreso la strada del ritorno che già pensavamo a come organizzare il nostro piccolo insignificante contributo per mandare cibo a lunga conservazione lì, dove abbiamo visto che in dieci minuti vengono distribuite fino ad esaurimento, 10 tonnellate di viveri.
Abbiamo in qualche modo registrato nella mente, prima ancora che sui telefonini, che ci sono posti in cui volontari di tutto il mondo prestano il loro tempo, le loro giornate, il loro vissuto, la loro anima ad aiutare, a fondo perduto, con la sensazione che non basti mai e che non sia mai abbastanza. Molti italiani, provenienti da tutto lo stivale, ma anche americani, inglesi, cinesi e ciascuno con quello che può e con quello che sa. Chi arriva in questo centro è disperato, ha perso tutto ma non la dignità. Si ferma giusto il tempo di fasciarsi le ferite, ristorare i figli, riappacificarsi con il mondo e prendere fiato per poi ripartire alla volta di un amico, un parente, una meta, dove ricominciare da capo. O ritornare indietro. Abbiamo percorso un pezzo di strada anche con Tracey, responsabile dell’accoglienza, che dall’Inghilterra arrivò sin qui per starci solo cinque giorni e offrire i primi aiuti. Ma ha rimandato a casa la figlia, per restare. Poi è ritornata a casa, ha preso le sue cose, tutto quello che poteva servire, la sua sedia a rotelle ed è ripartita. Sono quasi tre mesi che è lì e ci autorizza a visitare il centro, senza riprendere le persone, solo le cose. I lettini, le coperte, le lenzuola monouso, i pacchi divisi per categoria, generi alimentari o medicali, giochi e tutto quello arriva. Ma scarseggia il cibo ed i volontari si autotassano per comprarlo sentendo forte il senso di impotenza per non riuscire a farlo arrivare al di là del confine dove serve a chi combatte.
Per poter accedere in questo centro siamo stati schedati e resi individuabili con un codice a barre, impresso su un braccialetto che ci hanno fatto indossare. Qualcuno ha pensato come a un tatuaggio di ancestrale ed orrenda memoria, per non dimenticare; a noi piace immaginare come quando nasce un bimbo che ha il braccialetto uguale alla sua mamma, in segno di rinascita e nuova venuta al mondo, un mondo, si spera, migliore di come lo abbiamo lasciato.
Quell’insieme alfanumerico, quei segnetti, barcode, è suggestivo di essere in qualche modo parte di una più ampia matrice che universalmente è riconducibile ad un codice di più ampio respiro dove tutti i numeri convergono e trovano una loro collocazione. Piccolo tassello di un più grande puzzle che al momento ancora non disvela il progetto per intero.
Abbiamo cambiato scenario e prospettiva varie volte, abbiamo pregato per la pace, ma anche chiesto al Signore che strafulmini i fautori della guerra. Il Signore perdonerà queste intenzioni poco misericordiose ma molto umane. Poi siamo ritornati, facendo finta che non sia cambiato nulla per conservare l’immagine istituzionale che ognuno di noi si porta dietro, per darci un tono di compostezza prendendoci un giorno di silenzio, per decomprimerci forse, per riposare, nessuno di noi lo crede. Abbiamo macinato chilometri e storie, ricacciato dentro lacrime e rabbia inespressa, siamo rientrati alle stesse luci dell’alba con cui siamo partiti, sapendo perfettamente che il cambiamento da dentro si è già insinuato ed ha viaggiato con noi. E noi che non ci siamo mossi da questo posto, lo abbiamo stemperato questo viaggio, lo abbiamo preso in giro e lo abbiamo canzonato. In apnea. Abbiamo ripreso a respirare solo quando li abbiamo visti sul traghetto del ritorno e guardando i loro occhi abbiamo compreso che ciascuno di loro si era portato con sé un po’ di storia e un po’ ne ha lasciata lì da dove ha iniziato il suo. Quando siamo tornati qualcosa dentro è cambiato, un po’ come la teoria di Durac. “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema”.
Il viaggio continua anche per chi resta, per chi torna, per chi riparte. Il viaggio continua per continuare a far viaggiare il cibo, la speranza, i sogni. Poiché tutti siamo un unico sistema. Viaggia con noi. Se vuoi, puoi.