«Chiunque siano, da qualsiasi luogo provengano. Sempre». È questo lo slogan della Giornata mondiale del Rifugiato indetta dalle Nazioni Unite che si è celebrata il 20 giugno corso. Una ricorrenza promossa per ricordare la “Convenzione sullo status dei rifugiati” del 1951.
Si tratta di un’occasione che ci permette di considerare la situazione delle persone rifugiate accolte nella nostra città e l’impegno delle comunità cristiane.
Da anni ci sono persone che lasciano situazioni di guerra, discriminazione, carestia e povertà e affrontano viaggi terribili e molto rischiosi alla ricerca di una vita dignitosa. Non sempre la trovano.
Al salvataggio in mare, alla prima accoglienza e ai programmi di inserimento, non sempre sono seguite opportunità effettive di inserirsi in Italia e in Europa. Anche i sentimenti della società italiana nei confronti delle persone che raggiungono il nostro paese in condizioni di fragilità sono spesso ambivalenti: ora di grande accoglienza ora di forte chiusura. Le campagne mediatiche non sono estranee a questa oscillazione. Siamo arrivati a chiudere le frontiere dell’Europa, a ostacolare i salvataggi in mare e a favorire i respingimenti, con un costo altissimo di vite umane e sapendo a quali condizioni di violenza e di soggezione sono sottoposte le persone nei campi della Libia e di altri paesi ai confini dell’Europa
Durante la pandemia abbiamo ignorato le persone che arrivavano in Europa. La crisi dell’Afghanistan dell’estate scorsa e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia a febbraio hanno riacceso la nostra attenzione. Ma si tratta di un’attenzione selettiva. Provocatorio è il tema della giornata del rifugiato 2022: «Chiunque siano, da qualsiasi luogo provengano. Sempre.» Infatti mentre gli ucraini fuggono dalla guerra e ci raggiungono, arrivano anche tanti siriani, eritrei, sudanesi, maliani, somali, nigeriani nei confronti dei quali la nostra sensibilità è molto diversa. Viviamo ancora le conseguenze di una stagione segnata da innumerevoli pregiudizi, alimentati dagli interessi politici.
Se tutto questo è vero, comunque ci incoraggia la sorprendente risposta di solidarietà nei confronti delle vittime della guerra, che c’è stata nella nostra città e nelle comunità cristiane, di cui anche le istituzioni si sono fatte interpreti.
A Roma, in questo momento, in 48 parrocchie e istituti religiosi si accolgono 168 profughi e richiedenti asilo: sono ospitati ucraini, ma anche afgani, nigeriani, camerunesi, ivoriani, venezuelani, somali e altri. Altre 20 comunità religiose e parrocchiali hanno dato disponibilità per accogliere 105 cittadini ucraini, ora ospitati negli alberghi dalla Protezione civile, e iniziare insieme un percorso di integrazione.
Sono comunità che si sono rese disponibili a costruire progetti intorno alle persone accolte, in modo da attivare e valorizzare le reti di solidarietà già presenti nei diversi territori della città. Un’accoglienza che definiamo “diffusa”, perché realizzata da diverse comunità, che vedono coinvolte molte persone con le loro sensibilità e capacità.
Vi sono poi due centri promossi dalla Diocesi di Roma, il Ferrhotel e Santa Bakhita, che accolgono cento profughi, richiedenti asilo e protetti internazionali.
Esperienze straordinarie che arricchiscono la nostra Chiesa di Roma sono anche quelle del Centro Astalli dei padri Gesuiti, di Casa Scalabrini dei Missionari Scalabriniani, della Comunità di Sant’Egidio e di altre comunità ecclesiali.
Ci sono state anche moltissime famiglie che si sono rese disponibili ad accogliere. La complessità del sistema dell’accoglienza ha reso piuttosto difficile per ora il loro coinvolgimento. Ma si tratta di una bella promessa per un futuro prossimo.
Segni concreti, alcuni sorti da molti anni, altri più recenti e innovativi nello stile di accoglienza, che indicano una direzione da percorrere e ci invitano a non arrenderci sulla strada dell’umanità.
Fonte: Paolo Salvini vicedirettore della Caritas di Roma