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Le armi non bastano a risolvere il conflitto

Nel giorno in cui si celebra il patrono d’Europa, san Benedetto, e si ricorda il massacro di Srebrenica, la prima manifestazione italiana di cittadinanza attiva che fa tappa a Kiev.

Corre padre Fedele lungo il confine fra la Polonia e l’Ucraina. Non perché fugga da chissà che cosa, ma perché prova a raggiungere una coppia di anziani che sta cercando il punto di controllo dei passaporti per entrare nel Paese attaccato dalla Russia. L’uomo spinge con una mano la carrozzina su cui si trova la moglie, mentre con l’altra trascina una pesante valigia. Il frate minore francescano si alza il saio, accelera il passo e li intercetta. Si presenta. Poi convince il marito a lasciarsi affidare la sedia a rotelle.​

Comincia con un abbraccio ai più fragili, proprio sulla frontiera a Medyka, la marcia “fraterna” per la pace dei rappresentanti di trentacinque associazioni della Penisola. Realtà della società civile riunite sotto la sigla Mean che sta per “Movimento europeo di azione nonviolenta”. L’appuntamento è per lunedì 11 luglio, giorno in cui si celebra il patrono d’Europa, san Benedetto, e si ricorda il massacro di Srebrenica. E avviene a poche ore dalla distruzione di un condominio a Chasiv Yar, nella regione di Donetsk dell’Ucraina orientale, centrato da un missile russo: almeno quindici i morti, secondo le autorità locali, ma si cercano i dispersi.

È la prima manifestazione italiana di cittadinanza attiva che fa tappa nella capitale dell’Ucraina, a Kiev. «Vogliamo essere accanto fisicamente, e non solo a parole, a un popolo aggredito ma poi dire che c’è bisogno anche di una resistenza civile, condivisa, che chiede la fine delle ostilità e che è pronta a impegnarsi nell’incontro. Questa guerra che è in Europa ci riguarda in prima persona e ci domanda di intervenire dal basso», spiega Angelo Moretti, portavoce del Mean.

Fra’ Fedele è uno dei sessanta “pacificatori” giunti da tutta Italia: dal Trentino alla Calabria. L’arrivo a Kiev, nella tarda serata di domenica, è segnato dal suono delle sirene anti-missile sulla capitale. E una parte della notte viene trascorsa nel bunker sotto l’albergo che li ospita fino almeno all’1:30 quando l’allarme cessa: alcune ore seduti sulle sedie, con una bottiglietta d’acqua a testa, in attesa di capire quello che sarebbe successo, prima di poter rientrare nelle camere. Niente stop all’incontro, comunque.

È una delegazione eterogenea quella che a Kiev «arriva a mani vuote, senza paura», dice Moretti. Il mondo cattolico è in prima linea e fra gli ispiratori del Movimento: dall’Azione cattolica ai focolarini, passando per sacerdoti e religiosi che si spendono per gli ultimi nelle periferie della Penisola. Poi ci sono i radicali o chi, come Marianella Sclavi, sociologa e attivista di respiro internazionale, è stata una delle prime esponenti di Unità Proletaria dopo la laurea a Trento. «Ci unisce la convinzione che le armi non bastino a risolvere il conflitto – sottolinea la studiosa che è l’anima culturale del movimento –. Vogliamo far capire che l’altro è importante per noi. E intendiamo anche scusarci come europei per non esserci occupati di una situazione di emergenza che comincia con l’attacco al Donbass e l’annessione della Crimea».

Nel gruppo anche l’europarlamentare Pd Pierfrancesco Majorino, “volto” di un’Europa di cui il Mean denuncia la debolezza. «Tutti sono chiamati a contribuire a una svolta – dichiara –. Ho votato per l’invio delle armi ma sono profondamente contrario all’aumento al 2% delle spese militari. Certo, il solo invio di armi non può che portare a un’escalation. Ecco perché è urgente una politica alta e il coinvolgimento della società».

Fra gli organizzatori Marco Bentivogli, ex segretario generale dei metalmeccanici Cisl e oggi fra i padri di “Base Italia”, start-up per promuovere la partecipazione. «Quando la brutalità si manifesta in tutta la sua forza – afferma – occorrono anticorpi che sono quelli della relazione. Non si può delegare ai governi la soluzione di una crisi così profonda. È l’ora dei cittadini, di un impegno popolare per organizzare la speranza». Il gruppo è l’”avanguardia” di un sogno che punta a portare nella nazione in guerra 5mila corpi civili di pace.

Resta segreto il luogo dell’incontro. Per ragioni di sicurezza chieste dall’amministrazione comunale di Kiev che partecipa all’organizzazione.  150 sono i protagonisti dell’iniziativa: il massimo consentito dalla legge marziale. Metà italiani e metà ucraini. Il tutto frutto di mesi di colloqui. Si sono confrontati con le istituzioni locali, a cominciare dal sindaco di Kiev, e con i rappresentanti della Chiesa cattolica in Ucraina, come il nunzio apostolico intervenuto all’appuntamento. Due gli slogan.

Il primo è “We are all Ukrainians. We are all Europeans”: siamo tutti ucraini, siamo tutti europei. Per affermare che l’intero continente fa proprie le ferite di una nazione, ma anche che c’è una sola Europa, dall’Atlantico agli Urali, che comprende sia l’Ucraina, sia la Russia. E il secondo recita “More arms for hugs” (Più braccia per gli abbracci). Come è accaduto l’altra sera quando diciotto piazze d’Italia e una a Londra si sono animate di proposte nel segno della nonviolenza e si sono collegate con gli attivisti a Kiev. I due motti sono comparsi in bandiere e striscioni esposti durante la manifestazione.

Fonte: Giacomo Gambassi – Avvenire

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