Questo rito ci riconnette
Nessuno è immortale.
Nemmeno la regina Elisabetta, che ha attraversato gli ultimi due secoli regnando per quasi settant’anni anni. La morte ci tocca tutti, e ci accompagna ogni giorno. Lo abbiamo imparato con la pandemia. E, ancora una volta, abbiamo bisogno di elaborarne il senso, cosa che da soli è estremamente difficile. Per questo esistono i riti. Ritus vuol dire ordine.
Sia perché aiuta a contrastare il caos, il disordine, l’incertezza, la reazione individuale scomposta, ricompattando la comunità e dando senso al tempo – rendendolo ‘abitabile’. Sia perché stabilisce un legame tra diversi ordini di realtà: il qui e l’altrove, la terra e il cielo, il momento e l’eternità.
I funerali di Elisabetta, che tanto spazio hanno da giorni nell’informazione quotidiana, ben oltre i confini del Regno Unito, sono molto più di un media event – quel tipo di evento capace di sconvolgere la normale programmazione dei media, di coinvolgere un’audience mondiale, di segnare un passaggio storico e lasciare un segno nell’immaginario collettivo -. L’intensità della partecipazione rivela qualcosa in più del semplice desiderio di poter dire ‘io c’ero’. E l’insistenza dei media, che non fa altro che riprendere un fenomeno sociale di enorme partecipazione, è rivelatrice di una serie di aspetti che forse vale la pena considerare: perché ci parlano di questo tempo e di bisogni che non trovano risposta, e che anche questa morte ha fatto emergere.
Intanto un bisogno di presenza fisica. Non basta guardare la tv o scorrere i video su Instagram per partecipare all’evento. Non è solo curiosità o fascino per un’istituzione tanto obsoleta quanto popolare a muovere le persone, ma il senso di un passaggio d’epoca, di un commiato, di farsi testimoni di un passaggio, di trovarsi faccia a faccia con l’ineluttabilità della fine e voler vivere questo momento proprio lì, con altri. In un tempo in cui il digitale diventa il luogo di una ‘comunicazione senza comunità’, la concretezza della morte risveglia il senso di una comunità che non ha bisogno di parole per risuonare della stessa tonalità emotiva. «Tristi ma uniti» ha dichiarato una donna in coda da ore alla giornalista che le chiedeva come si sentisse.
Il bisogno di un ‘noi’ riaffiora continuamente, soprattutto quando la realtà ci mette alla prova, a ricordarci una verità antropologica misconosciuta: la relazione ci precede, e ci costituisce. Nel bene e nel male, come le intricate vicende della famiglia reale (ma in generale di tutte le famiglie) testimoniano. C’è anche una riflessione sul tempo che questo momento sollecita: c’è bisogno di una interruzione della frenesia, dei giorni che scorrono equivalenti, degli impegni che dettano legge o dello sforzo di sopravvivere a tempi difficili. Tutto passa, anche Elisabetta, eppure c’è bisogno, come ha scritto il filosofo Byung-chul Han, di «architetture temporali stabilizzanti», che diano il senso del permanere del legame, che sottraggano la vita alla contingenza che erode il senso di realtà e sostengano la fiducia che qualcosa dura, esiste davvero. E c’è bisogno di vivere questi momenti insieme, all’unisono, per assaporarne il senso e farlo nostro. «I tempi sono disconnessi», scriveva Shakespeare, e lo siamo anche noi.
Per questo abbiamo bisogno di «ecoritmi», come li chiama Sergio Manghi: «Ritmi viventi immediatamente relazionali, del tempo in atto». È l’ennesima lezione che la vita ci impartisce su quanto è limitato, riduttivo, ideologico l’individualismo radicale che ci viene raccontato come la condizione ultima della libertà. E su come i nostri giorni non sono nelle nostre mani, per parafrasare un salmo, e questo illumina di un senso diverso la nostra vita. Non tutti i giorni sono uguali, non sempre si può ricominciare, siamo insieme viventi e mortali, e questo vale per tutti. Non tutto è equivalente, revocabile, controllabile – la morte ce lo ricorda. E il rito – che sia la processione composta alla camera ardente o la partecipazione alle esequie – aiuta a coglierne il senso, insieme. Per ricordarci che nessun uomo è un’isola e che la famiglia umana è una comunità di destino.
Fonte: Chiara Giaccardi – Avvenire