Prediche di Avvento di Mons. Raniero Cantalamessa
“Sollevate, porte, i vostri frontali,
Sal 24, 7-8
alzatevi, porte antiche,
ed entri il re della gloria.”
Il 2 dicembre 2022 presso l’Aula Paolo VI in Vaticano sono iniziate le prediche d’Avvento del Card. Raniero Cantalamessa, Predicatore della Casa Pontificia, che ha scelto come tema le tre virtù teologali. Fede, speranza e carità sono l’oro, l’incenso e la mirra che noi, Magi di oggi, vogliamo recare in dono a Dio che “viene a visitarci dall’alto”.
Nell’interpretazione spirituale dei Padri e della liturgia, le porte di cui si parla nel salmo 24 sono quelle del cuore umano: “Beato colui alla cui porta bussa Cristo”, commentava sant’Ambrogio. “La nostra porta è la fede…Se vorrai alzare le porte della tua fede, entrerà da te il re della gloria”. San Giovanni Paolo II fece, delle parole del salmo, il manifesto del suo pontificato. “Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”, gridò al mondo, il giorno della inaugurazione del suo ministero.
La grande porta che l’uomo può aprire, o chiudere, a Cristo è una sola e si chiama libertà. Essa, però, si apre secondo tre modalità diverse, o secondo tre tipi diversi di decisione che possiamo considerare come altrettante porte: la fede, la speranza e la carità. Sono, queste, delle porte tutte speciali: si aprono da dentro e da fuori nello stesso tempo: con due chiavi, di cui una è in mano all’uomo, l’altra a Dio. L’uomo non può aprirle senza il concorso di Dio e Dio non vuole aprirle senza il concorso dell’uomo.
Cristo, origine e compimento della fede
Dio apre la porta della fede in quanto dà la possibilità di credere, inviando chi predica la buona novella; l’uomo apre la porta della fede accogliendo questa possibilità. Con la venuta di Cristo, si registra, a proposito della fede, un salto di qualità. Non nella natura di essa, ma nel suo contenuto. Ora non si tratta più di una generica fede in Dio, ma della fede in Cristo nato, morto e risorto per noi. La Lettera agli Ebrei fa un lungo elenco di credenti: “Per fede Abele… Per fede Abramo…Per fede Isacco…Per fede Giacobbe…Per fede Mosé…” Ma conclude dicendo: “Tutti costoro, pur essendo approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso” (Eb 11, 39). Che cosa mancava? Mancava Gesù, cioè colui che “dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12, 2).
La fede cristiana non consiste dunque soltanto nel credere in Dio; consiste nel credere anche in colui che Dio ha mandato. Quando, prima di compiere un miracolo, Gesù domanda: “Credi tu?” e, dopo averlo compiuto, afferma: “La tua fede ti ha salvato”, non si riferisce a una generica fede in Dio (questa era scontata in ogni israelita); si riferisce alla fede in ui, nel potere divino a Lui concesso. Questa fede, che fa rinascere a vita nuova, si colloca al termine di un processo che comincia – dice s. Paolo ai Romani – dalle orecchie, cioè dall’udire l’annuncio del Vangelo: “La fede viene dall’ascolto”, fides ex auditu. Dalle orecchie, il movimento passa al cuore, dove si prende la decisione fondamentale: corde creditur, “con il cuore si crede”. Dal cuore, il movimento risale alla bocca: “con la bocca si fa la professione di fede”: ore fit confessio. Dalle orecchie, dal cuore e dalla bocca, passa poi alle mani perché “la fede diventa operativa nella carità” (Gal 5,6). San Giacomo può stare tranquillo: c’è posto anche per le “opere”.
Non però prima, ma dopo (logicamente se non cronologicamente) la fede. Se la fede che salva è la fede in Cristo, che pensare di tutti quelli che non hanno alcuna possibilità di credere in lui? Viviamo in una società, anche religiosamente, pluralistica. Le nostre teologie – Orientale e Occidentale, Cattolica e Protestante allo stesso modo – si sono sviluppate in un mondo dove esisteva in pratica soltanto il cristianesimo. Si era, bensì, a conoscenza dell’esistenza di altre religioni, ma esse erano considerate false in partenza, o non erano prese affatto in considerazione. A parte il diverso modo di intendere la Chiesa, tutti i cristiani condividevano l’assioma tradizionale: “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”. Oggi non è più così. Da qualche tempo è in atto un dialogo tra le religioni, basato sul reciproco rispetto e sul riconoscimento dei valori presenti in ognuna di esse.
Nella Chiesa Cattolica, il punto di partenza è stata la dichiarazione “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II, ma un orientamento analogo è condiviso da tutte le Chiese storiche cristiane. Con questo riconoscimento si è andata affermando la convinzione che anche persone al di fuori della Chiesa possono salvarsi. Gesù è “il salvatore del mondo” (Gv 4, 42); il Padre ha mandato il Figlio “perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17): il mondo, dunque, e non soltanto alcuni pochi nel mondo! La Scrittura afferma che chi non ha conosciuto Cristo, ma agisce in base alla propria coscienza (Rm 2, 14-15) e fa del bene al prossimo (Mt 25, 3 ss.) è accetto a Dio. “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (At 10, 34-35). Anche gli aderenti ad altre religioni credono, in genere, che “Dio esiste e che ricompensa coloro che lo cercano” (Eb 11, 6). Questo vale, naturalmente, in modo tutto speciale, per i fratelli ebrei che credono nello stesso Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe in cui crediamo noi cristiani. Il motivo principale del nostro ottimismo non si basa, tuttavia, sul bene che gli aderenti ad altre religioni sono in grado di fare, ma sulla “multiforme grazia di Dio” (1Pt 4, 10). Dio ha molti più modi per salvare di quanti noi possiamo pensare. Ha istituito dei “canali” della sua grazia, ma non si è vincolato ad essi. Uno di questi mezzi “straordinari” di salvezza è la sofferenza. Dopo che Cristo l’ha presa su di sé e l’ha redenta, è anch’essa, a modo suo, un universale sacramento di salvezza.
Colui che si è calato nelle acque del Giordano santificandole per ogni battesimo, si è calato anche nelle acque della tribolazione e della morte, facendone potenziale strumento di salvezza. Misteriosamente, ogni sofferenza – non solo quella dei credenti -, compie, in qualche modo, “quello che manca alla passione di Cristo” (Col 1, 24). La Chiesa celebra la festa dei Santi Innocenti, anche se neppure essi sapevano di soffrire per Cristo! Noi crediamo che tutti coloro che si salvano si salvano per i meriti di Cristo: “Non vi è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12). Una cosa, tuttavia, è affermare la universale necessità di Cristo per la salvezza, e altra cosa affermare l’universale necessità della fede in Cristo per la salvezza. Superfluo, allora, continuare a proclamare il Vangelo a ogni creatura? Tutt’altro! È il motivo che deve cambiare, non il fatto. Dobbiamo continuare ad annunciare Cristo; non tanto però per un motivo negativo (perché altrimenti il mondo sarà condannato), quanto per un motivo positivo: per il dono infinito che Gesù rappresenta per ogni essere umano.
Il dialogo interreligioso non si oppone all’evangelizzazione, ma ne determina lo stile e “fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa” (Redemptoris Missio). Il mandato di Cristo: “Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15) e “Fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28, 19) conserva la sua perenne validità, ma va compreso nel suo contesto storico. Sono parole da riferire al momento in cui sono state scritte, quando “tutto il mondo” e “tutti i popoli” era un modo per dire che il messaggio di Gesù non era destinato solo a Israele, ma anche a tutto il resto del mondo. Esse sono sempre valide per tutti, ma per chi appartiene già a una religione, ci vuole rispetto, pazienza e amore. Lo aveva capito e messo in pratica Francesco d’Assisi.
La sfida della scienza
Di fronte al dispiegarsi davanti ai nostri occhi delle dimensioni sconfinate dell’universo, l’atto di fede maggiore per noi cristiani è di credere che “tutte le cose sono state create per mezzo di Cristo e in vista di lui” (Col 1,16), che “senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1, 3). C’è una certezza più forte di tutte le incertezze: la credibilità della persona di Cristo, della sua vita e della sua parola. La certezza piena e gioiosa non si ha prima, ma dopo aver creduto.
Il giusto vive per la fede
La fede è il solo criterio capace di farci rapportare in modo giusto, non solo alla scienza, ma anche alla storia. Dio chiede di fidarsi di lui e della sua giustizia, nonostante tutto. La soluzione non sta nella cessazione della prova, ma nell’aumento della fede. Dio è talmente sovrano e in controllo degli eventi che fa servire ai suoi piani misteriosi anche l’agitarsi degli empi. È vero: Dio scrive diritto per linee storte! Le situazioni possono sfuggire di mano agli uomini, ma non a Dio. Il profeta Abacuc domanda: “Signore, fino a quando? Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male! Come mai tanta violenza, tanti corpi umani scheletriti dalla fame, tanta crudeltà nel mondo, senza che tu intervenga?” La risposta di Dio è ancora la stessa: soccombe al pessimismo e si scandalizza chi non ha il cuore radicato in Dio, mentre il giusto vivrà di fede, troverà la risposta nella sua fede.
Capirà cosa voleva dire Gesù quando, davanti a Pilato, disse: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Mettiamocelo, però, bene in testa e ricordiamolo al mondo all’occorrenza: Dio è giusto e santo; non permetterà che il male abbia l’ultima parola e i malfattori la facciano franca. Ci sarà un giudizio alla conclusione della storia, “un libro scritto verrà aperto, in cui tutto è contenuto e in base al quale il mondo sarà giudicato”. Un primo giudizio – imperfetto ma sotto gli occhi di tutti, credenti e non credenti – è in atto già ora, nella storia. I benefattori dell’umanità che hanno operato per il progresso del loro paese e per la pace nel mondo sono ricordati con onore e benedizione di generazione in generazione; il nome dei tiranni e dei malfattori continua nei secoli ad essere accompagnato da disprezzo e riprovazione. Gesù ha rovesciato per sempre i ruoli. “Vincitore perché vittima”: così Agostino definisce Cristo. Alla luce dell’eternità – ma anche spesso della storia – non sono i carnefici i veri vincitori, ma le loro vittime.
Quello che la Chiesa può fare, per non assistere passivamente allo svolgersi della storia, è schierarsi contro l’oppressione e la prepotenza, mettersi sempre, “a tempo e fuori tempo”, dalla parte dei poveri, dei deboli, delle vittime, di quelli che portano il peso maggiore di ogni sventura e di ogni guerra. Quello che può fare è anche rimuovere uno dei fattori che sempre ha fomentato i conflitti e cioè la rivalità tra le religioni, le famigerate “guerre di religione”. Dall’intesa e dalla collaborazione leale tra le grandi religioni può venire una spinta morale che imprima alla storia quel nuovo corso che invano si attende dai poteri politici. In questo senso va vista l’utilità di iniziative come quelle, avviate da san Giovanni Paolo II e accelerate oggi da papa Francesco, per un dialogo costruttivo tra le religioni. Roma ha cessato da tempo di essere caput mundi, ma deve rimanere caput fidei = capitale della fede, dell’intensità e della radicalità del credere.
Ciò che i fedeli colgono immediatamente in un sacerdote e in un pastore, è di fatto se “ci crede”, se crede cioè in ciò che dice e in ciò che celebra, perché la fede si trasmette di preferenza senza fili, senza tante parole e ragionamenti, ma per una corrente di grazia che si stabilisce tra due spiriti. L’atto di fede più grande che la Chiesa può fare – dopo aver pregato e fatto il possibile per evitare o far cessare i conflitti – è di rimettersi a Dio con un atto di totale fiducia e sereno abbandono, ripetendo con l’Apostolo: “So in chi ho posto la mia fiducia!” (2 Tim 1,12). Dio non si tira mai indietro per far cadere nel vuoto chi si getta tra le sue braccia. Andiamo dunque incontro a Cristo che viene, con un atto di fede che è anche una promessa di Dio e dunque una profezia: “Il mondo è nelle mani di Dio e quando, abusando della sua libertà, l’uomo avrà toccato il fondo, lui interverrà a salvarlo”. Sì, interverrà a salvarlo! Per questo, infatti, è venuto al mondo, duemila e ventidue anni fa.
Angela Di Scala