50 anni di obiezione di coscienza in Italia. 45 anni di servizio civile in Caritas
Intervento del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI
È davvero importante questo incontro. Ringraziamo quanti, anche con un prezzo personale importante, hanno preparato e consentito uno spazio all’epoca combattuto e discusso. L’obiezione di coscienza in realtà ha permesso tanta coscienza, sia nelle persone come nelle comunità. Cosa sarebbe senza? È stato un cammino di universalità vera, che ha aiutato tante realtà a maturare, spesso ad andare avanti. E ha permesso di capire cosa significa essere operatori di pace e anche il prezzo che questo richiede. E oggi, che ci confrontiamo con un mondo sempre più interconnesso eppure diviso, con la tentazione di chiudersi in prospettive limitate, travolto dalla pandemia della guerra che si presenta come mondiale, come non mai in questi ultimi decenni, questa storia non richiede un nuovo rilancio, anche nel senso economico e meccanismi sicuri e agili, anche per quanto riguarda il servizio civile internazionale?
Sono trascorsi cinquant’anni dall’entrata in vigore della Legge “Norme per il riconoscimento della obiezione di coscienza” (15 dicembre 1972, n. 772). Oltre ad aprire uno spazio per l’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, la legge introduceva per gli obiettori l’obbligo di «prestare servizio militare non armato, o servizio sostitutivo civile» (art. 5), introducendo così anche il nuovo istituto del servizio civile.
Furono necessari molti anni per raggiungere questo risultato, frutto di un lavoro sul piano culturale che chiarisse i termini e i concetti e accreditasse l’affermazione che si può difendere la patria anche senza imbracciare un’arma, smontando una lunga tradizione che conduceva alla scorretta equivalenza tra rifiuto del servizio militare e disimpegno verso la società e il bene comune. Dietro a questo processo vi furono l’impegno, la riflessione, la dedizione e il sacrificio di molti. Doveroso è ricordare oggi alcune personalità del mondo cattolico che hanno tracciato un percorso indelebile: da Gozzini a Fabbrini, da Balducci a La Pira, da Mazzolari a don Lorenzo Milani.
Ma la circostanza odierna ci permette di fare memoria sia di quanto e di come la Chiesa italiana seppe valorizzare questa opportunità del “servizio civile”, ma anche per immaginare il futuro.
Gli anni del post concilio furono assai impegnativi sia per una profonda trasformazione della società come anche per la vita stessa della Chiesa.
La Conferenza Episcopale Italiana, presieduta dal Card. Antonio Poma, mostrò una capacità di reazione proponendo un progetto di largo respiro «Evangelizzazione e Sacramenti», elaborato dopo un’ampia ricerca socio-religiosa. La decima Assemblea Generale del giugno 1973 promosse un grande convegno a Roma «Evangelizzazione e promozione umana (Epu)» per verificare il cammino postconciliare e ripensare la presenza e il servizio nella società. L’arcivescovo Enrico Bartoletti, segretario CEI e vero artefice della preparazione, era convinto che l’Italia avesse bisogno di una nuova evangelizzazione, non un «aggiornamento» ma un «rinnovamento», che non poteva essere opera solo dei vescovi: ma con il coinvolgimento del popolo di Dio. Il convegno (30 ottobre-4 novembre 1976) si celebra, con grande successo, anche di media.
Paolo VI, che aveva dedicato al convegno alcuni discorsi, nell’omelia del 31 ottobre in San Pietro esorta: «Per evangelizzare occorre essere coraggiosi e non avere paura di nulla e di nessuno. Il che non vuol dire essere spregiudicati e temerari, come oggi è costume per alcuni, ma umili e forti, audaci e leali con tutti». Tutto è così valido ancora oggi!
Sette mesi dopo quell’assise, la Caritas Italiana stipulava la convenzione col Ministero della Difesa che consentì alle Caritas diocesane di tutta Italia di accogliere gli obiettori di coscienza in servizio civile. Una storia, quella del servizio civile in Caritas, che si è andata sviluppando in questi decenni e che ha consentito a circa centomila giovani (la Caritas è stata l’ente convenzionato col maggio numero di obiettori all’anno, circa 5mila) di vivere un’esperienza all’insegna della costruzione della pace e del servizio ai poveri. Gli obiettori hanno, col loro servizio civile, trovato uno spazio nella pastorale di molte Diocesi che hanno contribuito a far crescere sui temi della giustizia, della testimonianza della carità e della pace. Forse resta ancora da indagare a fondo questo aspetto della vita delle nostre comunità.
I valori posti a fondamento di questa esperienza hanno continuato a caratterizzare la proposta che le Caritas hanno fatto ai giovani, pur nelle modifiche del quadro normativo che si sono succedute: dapprima con la legge 772/72, poi con la legge 230/98 e con la legge 64/01 che ha istituito il servizio civile nazionale, fino alla legge 106 del 2016 che ha introdotto l’attuale servizio civile universale.
Alla luce di questa evoluzione, non solo normativa, dell’esperienza del servizio civile, è indispensabile fare non solo memoria del passato, ma proporre una riflessione sui primi venti anni di servizio civile volontario e tracciare alcune piste di lavoro per il futuro.
Certamente le condizioni storiche che portarono alla legge 772 sono profondamente diverse dall’attuale situazione, così come è mutato il panorama giovanile a cui viene proposto oggi il servizio civile. Lo sforzo delle nostre Caritas è proprio quello di mantenere vivo nei giovani lo spirito dell’obiezione “alla violenza” in tutte le sue forme in cui questa si manifesta, organizzate e no. E la guerra in Ucraina ci sta drammaticamente ricordando in questi mesi l’urgenza di una pace positiva da costruire a partire proprio dai giovani.
L’obiezione di coscienza è stato uno stimolo formidabile allo sviluppo di una cultura della non violenza, della partecipazione alla costruzione di processi di pace. Ogni giovane obiettore doveva, all’inizio, pagare un prezzo alto per la sua scelta: almeno di tempo, offrendo allo Stato il doppio del tempo richiesto per il servizio militare. Una scelta di questo tipo, così forte, ha formato delle coscienze e ha contribuito allo sviluppo di una cultura dove la pace non fosse delegata alle scelte politiche di livelli governativi ai più inaccessibili, ma fosse un impegno personale che toccasse la vita di tutti. Ed è significativo che questo prezzo lo abbiano pagato i giovani.
Nel tempo il Servizio civile è stato sempre più assimilato al servizio militare (almeno nella durata e nel trattamento di chi lo sceglieva), ma questo è avvenuto mentre l’idea del servizio militare andava indebolendosi e si andava verso la direzione di un servizio militare professionistico. È stato quello il tempo (penso soprattutto agli anni novanta) dove c’è stata un’esplosione di adesioni. Come sempre alcune ragioni non erano proprio eroiche: magari la scelta di rimanere vicino a casa. Ma anche questo è stato un tempo fecondo: il servizio presso le amministrazioni pubbliche e sparse nel territorio (nei comuni, nelle scuole, nelle biblioteche) ha permesso a molti giovani di scoprire un senso più profondo di servizio alla comunità. Chi partiva ancora per il servizio militare, sentiva parlare di Stato che però non vedeva andando a fare le esercitazioni nelle campagne deserte o sulle montagne. Gli obiettori in servizio civile (ancora venivano definiti così), pur non essendo attraversati da grossi dubbi di coscienza, servivano la comunità incontrando persone, aiutando i più fragili, i malati, gli anziani, i bambini nelle scuole. E così un’esperienza magari iniziata per una scelta di comodo, si poteva trasformare in un laboratorio di comunità, in un esercizio di effettivo servizio, in un percorso di scoperta di sé. Molti “obiettori” sono arrivati a fare scelte di vita importanti proprio attraverso il percorso del servizio civile.
Quando si parla di “obiezione di coscienza” c’è un racconto della Bibbia che viene alla mente. Nel libro dell’Esodo (Es 1,15-21) si racconta che il faraone era preoccupato della crescita del numero degli ebrei presenti sul territorio d’Egitto: per questo ordinò alle due levatrici degli ebrei di far morire tutti i bambini maschi, subito dopo il momento del parto. «Ma – si legge – le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini».
Ci sono tre piccoli dettagli di questo racconto che non devono sfuggirci.
1. Il primo è che in tutto il libro dell’Esodo il faraone è presentato come un governante dispotico che cerca di prendere il posto di Dio. Le levatrici agiscono non tanto in disobbedienza al faraone, ma in obbedienza a Dio. Quando le due strade divergono, le levatrici non hanno dubbi e prendono la strada della volontà di Dio. Amare il Dio della Bibbia significa formare la propria coscienza intorno a valori alti, come la cura della vita e il rispetto dei più deboli.
2. C’è un secondo aspetto che non deve sfuggirci. Il racconto prosegue con la convocazione delle due levatrici dinanzi al faraone per rendere ragione delle loro azioni. La risposta è una palese bugia: «Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito!» (Es 1,19). E il racconto prosegue con la rassicurazione che Dio approvò il comportamento delle levatrici. Come accade altre volte nei racconti biblici, l’intento non è di legittimare una bugia in quanto tale, ma di plaudire ad un escamotage ingegnoso per tutelare un bene più grande. Di fronte ad un tiranno irragionevole che emette un ordine mortifero, queste donne hanno saputo essere disobbedienti e rette allo stesso tempo, pronte a rischiare la propria stessa vita.
3. Un terzo piccolo aspetto non va dimenticato. Stranamente il libro dell’Esodo riferisce i nomi di queste due levatrici: Sifra e Pua (Es 1,15). Un dettaglio inusuale. Ma diventa comprensibile se si legge quanto l’autore riferisce poco oltre: «Poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede loro una discendenza» (Es 1,21). È come se si volesse confermare al lettore che Sifra e Pua continuano a vivere ancora oggi. Il loro gesto non rimane circoscritto ad un episodio del passato, ma si perpetua ancora nel presente. Ogni volta che qualcuno sceglie la volontà di Dio al capriccio del dittatore, ogni volta che la coscienza prevale sugli ordini di scuderia, ogni volta che si è disposti a pagare di persona per continuare a fare la cosa giusta, Sifra e Pua continuano a vivere.
Poter fare una scelta non obbligata, come il servizio civile volontario, come lo conosciamo oggi, continua a offrire la possibilità di fare un’esperienza intensa nella propria vita. I giovani che vi arrivano possono essere spinti dal desiderio di prendersi del tempo per fare chiarezza sulla propria vita, dal bisogno di avere un sostentamento per raggiungere un po’ di autonomia, oppure dall’idea di rendersi utili alla comunità e di mettersi a a servizio. Qualunque sia la ragione, il servizio civile volontario è una delle poche esperienze che connette effettivamente i giovani alla società offrendo loro un ruolo da protagonisti, li aiuta a scoprire la bellezza dei legami e il fascino di poter partecipare ai processi di crescita della comunità intera. Forse il servizio civile rimane una delle poche scuole di partecipazione alla vita pubblica e di educazione all’impegno sociopolitico. Gaudium et Spes, in uno dei testi più belli e conosciuti del Concilio, afferma che la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria (GS 16). In effetti nel cuore di ogni uomo Dio continua a riversare il proprio amore (Rm 5, 5), che è il motore di ogni progresso e di ogni iniziativa. Sarebbe però un errore ritenere che la scoperta di questa realtà fosse legata ad una dimensione solo intima, solipsistica, di introspezione. Tanto meno la coscienza si impara sui libri, nei convegni. Il dono si rivela invece nella pratica quotidiana, quando compiamo quel processo umanissimo, che inizia dall’interrogare le esperienze della vita, spinti da una sana inquietudine. Le domande sono il momento decisivo del risveglio di ogni coscienza. Custodire, tenere vive le domande, ascoltare quello che ci accade attorno, non accontentarsi di scorciatoie disumanizzanti di fronte ai problemi, è il primo modo eminente di comunicare con la realtà. L’amore infatti interroga e interpella, non lascia tranquilli, genera compassione, spinge a capire di più e meglio, coinvolge. Il secondo momento della coscienza che si risveglia è proprio quello dell’intelligenza, dell’approfondimento, che aiuta a capire come ci siano sempre opzioni diverse e dunque scelte, che da un lato ci spingono alla solidarietà, e dall’altro all’individualismo e all’indifferenza. L’esito di questo processo sono le nostre decisioni, ovvero chi scegliamo di essere. Questa esperienza, che chiamiamo coscienza, è il percorso che ogni benedetto giorno compiamo dall’assunzione della realtà, alla responsabilità personale e comunitaria. L’amore non potrà mai resterà fuori dalla concretezza; perché diventi bene e il bene astratto non esiste, ha bisogno che ci sporchiamo le mani con il dolore e la vita dei fratelli, che impariamo il passaggio dalla compassione alla solidarietà.