La terza e ultima predica d’Avvento di Mons. Raniero Cantalamessa, Predicatore della Casa Pontificia, presso l’Aula Paolo VI in Vaticano
Un Dio da amare o un Dio che ama?
Siamo giunti alla porta più interna del “castello interiore”, quella della virtù teologale della carità. Ma che significa aprire a Cristo la porta dell’amore? Significa, forse, prendere, noi, l’iniziativa di amare Dio? Così avrebbero risposto i filosofi pagani, in base alla concezione che avevano dell’amore di Dio. “Dio – diceva Aristotele – muove il mondo in quanto è amato”. In quanto è amato, si badi bene, non in quanto ama! Questa visione filosofica è stata rovesciata completamente nel Nuovo Testamento: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo figlio …Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1Gv 4,10. 19). Henri de Lubac ha scritto: “Occorre che il mondo lo sappia: la rivelazione dell’Amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito della divinità”. Lo Spirito Santo – ci insegna sant’Ireneo – ringiovanisce continuamente il tesoro della rivelazione, insieme con il vaso che lo contiene che è la tradizione della Chiesa. Ora è ben vero che quello di amare Dio con tutte le forze è “il primo e più grande comandamento”. Questa è certamente la prima cosa. Ma prima dell’ordine dei comandamenti, c’è l’ordine della grazia, cioè dell’amore gratuito di Dio. Il comandamento stesso si fonda sul dono; il dovere d’amare Dio si fonda sull’essere amati da Dio: “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo”. Questa è la novità della fede cristiana.
Noi abbiamo creduto all’amore di Dio.
Aprire a Cristo la porta dell’amore significa dunque una cosa ben precisa: accogliere l’amore di Dio, credere nell’amore. “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16). Natale è la manifestazione – alla lettera, l’epifania – della bontà e dell’amore di Dio per il mondo: “È apparsa la grazia di Dio apportatrice di salvezza”, scrive san Paolo. E ancora: “Si sono manifestate la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini” (Tt 2,11; 3,4). La cosa più importante da fare a Natale è ricevere con stupore il dono infinito dell’amore di Dio. Quando si riceve un dono, non è delicato presentare immediatamente, con l’altra mano, il proprio dono, magari già preparato in anticipo. Si dà, inevitabilmente, l’impressione di volersi subito sdebitare. Bisogna, prima, fare onore al dono che si riceve e al suo donatore, con lo stupore e la gratitudine. Dopo – quasi vergognandosi e con pudore – si può offrire il proprio dono, come fosse nulla in confronto a ciò che si è ricevuto. (Nei confronti di Dio, il nostro dono è, in realtà, meno che nulla!) Quello che dobbiamo fare, come prima cosa, a Natale è credere all’amore di Dio per noi. L’atto di carità tradizionale, almeno nella recita privata e personale, non dovrebbe cominciare con le parole: “Mio Dio, ti amo con tutto il cuore”, ma “Mio Dio, credo con tutto il cuore che tu mi ami”. Sembra una cosa facile. Invece è tra le cose più difficili al mondo. L’uomo è più incline ad essere attivo che passivo, a fare più che a lasciare che sia Dio a fare. Inconsciamente non vogliamo essere debitori, ma creditori; vogliamo, sì, l’amore di Dio, ma come premio, piuttosto che come dono. Così, però, si opera insensibilmente uno slittamento e un capovolgimento: al primo posto, in cima a tutto, al posto del dono, viene messo il dovere, al posto della grazia, la legge, al posto della fede, le opere. “Noi abbiamo creduto all’amore!”: io la chiamo “fede incredula”, cioè fede che non sa capacitarsi di quello che crede, anche se lo crede. Dio – l’Eterno, l’Essere, il Tutto – ama me e ha cura di me, piccolo nulla sperduto nell’immensità dell’universo e della storia! “Il naufragar m’è dolce in questo mare”, ci sarebbe da esclamare con il poeta Leopardi. Bisogna diventare bambini per credere all’amore. I bambini credono all’amore, ma non in base a un ragionamento. Per istinto, per natura. Nascono pieni di fiducia nell’amore dei genitori. Chiedono ai genitori le cose di cui hanno bisogno, magari anche pestando i piedi, ma il presupposto tacito non è che se lo sono guadagnato; è che sono i figli e che un giorno saranno gli eredi di tutto. È soprattutto per questo motivo che Gesù raccomanda così spesso di diventare come i bambini per entrare nel suo Regno. Eppure, non è facile tornare bambini. L’esperienza, le amarezze, le delusioni della vita ci rendono cauti, prudenti, a volte cinici. Somigliamo un po’ tutti a Nicodemo. “Come può un uomo – pensiamo – rinascere quando è vecchio?” (Gv 3,4). Come possiamo rinascere, tornare ad entusiasmarci, stupirci a Natale come i bambini? Ma cosa rispose Gesù a Nicodemo? “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5). Questo non è risultato di sforzo e velleità umana, o eccitazione del cuore; è opera dello Spirito Santo. Gesù non parla qui solo del battesimo; perlomeno non solo del battesimo di acqua. Si tratta di una rinascita e di un battesimo “nello Spirito”, o “dall’alto” (Gv 3,3), che può rinnovarsi più volte nell’arco della vita. Fu quello che gli apostoli e i discepoli sperimentarono a Pentecoste e che anche noi dovremmo desiderare, per conoscere in qualche misura quella “novella Pentecoste” che papa san Giovanni XXIII chiese a Dio per tutta la Chiesa nell’annunciare il Concilio. “Essi furono tutti pieni di Spirito Santo” (At 4): cosa vuol dire? Cos’è lo Spirito Santo? Dice la teologia: è l’amore con cui il Padre ama il Figlio e con cui il Figlio ama il Padre. Più liberamente diciamo: è la vita, la dolcezza, il fuoco, la beatitudine che scorre nella Trinità, perché l’amore è tutte queste cose insieme e in grado infinito. Tutti furono dunque pieni dell’amore di Dio. Fecero una esperienza travolgente di essere amati da Dio. Morendo, Cristo aveva distrutto il muro divisorio del peccato e ora l’amore di Dio poteva finalmente riversarsi sugli apostoli e i discepoli, sommergendoli in un oceano di pace e di felicità…attualizzato, per ognuno, nel battesimo. Non si trattò di qualcosa di cui l’interessato non ha alcuna coscienza. Il dono del “cuore nuovo” non avvenne in anestesia totale, come i trapianti di cuore! Avvenne un cambiamento improvviso: niente più timori, rivalità, timidezza; uomini nuovi, pronti a lanciarsi per le vie del mondo e dare la vita per Cristo.
“La carità edifica”.
“Se Dio ci ha tanto amato …” la conseguenza è: “anche noi dobbiamo amarlo e amarci tra di noi”. Si dice che: “la scienza gonfia, la carità edifica” (1Cor 8,2). Edifica anzitutto l’edificio di Dio che è la Chiesa. Cessate le Scritture, la fede, la speranza, i carismi, i ministeri e tutto il resto, rimane la carità. Tutto scomparirà, come quando si smonta l’impalcatura che è servita a costruire un edificio e questo appare in tutto il suo splendore. La carità non edifica però soltanto la società spirituale che è la Chiesa, ma anche la società civile. Spetta ai politici e agli economisti avviare processi strutturali che riducano lo scandaloso divario tra un ridotto numero di ricchissimi e lo sterminato numero dei diseredati della terra. Il mezzo ordinario per i cristiani è creare le premesse nel cuore dell’uomo perché questo avvenga. Per chi è impegnato nel sociale si tratta di promuovere la cosiddetta “dottrina sociale della Chiesa”. Per gli imprenditori cristiani, per esempio, è creare posti di lavoro, come ha ribadito il Santo Padre.
Solo l’amore ci può salvare.
La grazia, dice un famoso assioma teologico, suppone la natura, non la distrugge, ma la perfeziona. Applicato alla terza virtù teologale, ciò significa che la carità suppone la capacità e la predisposizione naturale dell’essere umano ad amare ed essere amato. Questa capacità ci può salvare oggi da una tendenza in atto che porterebbe, se non corretta, a una vera e propria “disumanizzazione”. Perché l’uomo vorrebbe rimpiazzare le sue capacità operative con i robot, le sue capacità mentali con l’intelligenza artificiale. Ma noi siamo stati creati a immagine di Dio, e “Dio è amore”! (1Gv 4,8). Quindi nonostante tutti i nostri errori e misfatti, noi esseri umani non potremo mai essere rimpiazzati, mai siamo – e non saremo mai – di troppo sulla terra! Al termine delle sue riflessioni filosofiche sul pericolo della tecnica per l’uomo moderno, Martin Heidegger, quasi gettando la spugna, esclamava infatti: “Solo un dio ci può salvare!” Possiamo parafrasare: solo l’amore ci può salvare! L’amore di Dio, però, non certo il nostro.
“Un Bambino è nato per noi”.
Volgiamo ormai i nostri pensieri al Natale che è alle porte. Con la venuta di Cristo, il grande fiume della storia è arrivato a una “chiusa” e riparte a un livello più alto. “Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). È colmato il grande “dislivello” che separava Dio dall’uomo, il Creatore dalla creatura. Non per nulla, da allora in poi, la storia umana si divide in “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. Noi sappiamo che l’amore è davvero diventato un bambino; che esso è ormai una realtà, un evento, anzi una persona. “L’amore del Padre si è fatto carne” (Gv 1,14). Sì, l’amore si è fatto davvero bambino: il bambino Gesù. “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Apriamo la porta del cuore a quel Bambino che bussa. La cosa più bella che possiamo fare a Natale non è, dicevo, offrire noi qualcosa a Dio, ma accogliere con stupore il dono che Dio Padre fa al mondo del suo stesso Figlio. Dice una leggenda che tra i pastori che la notte di Natale si recarono a trovare il Bambino, vi era un pastorello così povero che non aveva proprio nulla da offrire alla Madre, e se ne stava in disparte vergognoso. Tutti facevano a gara a consegnare a Maria il proprio dono. La Madre non riusciva a trattenerli tutti, dovendo reggere il Bambino Gesù tra le braccia. Allora, vedendo lì accanto il pastorello con le mani vuote, prende il Bambino e glielo mette tra le braccia. Non avere nulla fu la sua fortuna. Facciamo che sia anche la nostra!
Uniamoci allo stupore e alla gioia della liturgia che a Natale ripete – come fatto compiuto e non più semplice profezia – le parole di Isaia (9, 5):
“Un bambino è nato per noi;
e un Figlio ci è stato dato.
Sulle sue spalle è il potere
e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile,
Dio potente,
Padre per sempre,
Principe della pace.” Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle: BUON NATALE!
di Angela Di Scala