“La vita è il tipo di insegnante più difficile. Prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione.” Oscar Wilde
Forse, oso aggiungere. Non è mica detto che sia così clemente da spiegartelo il concetto, spesso la vita te la impone questa lezione, te la scaraventa addosso come un serbatoio di acqua gelida e tu sei costretto, dopo esserti ripulito alla meno peggio, ad arrovellarti il cervello se vuoi capirci qualcosa. In alternativa, puoi arrenderti se vuoi sopravvivere alle sue illogiche dinamiche, provando a salvare il salvabile. Fino a ritrovarti all’interrogazione e scoprirti o fortunato o preparato o fallito.
Qualche volta capita che un insegnante di fortuna, apparentemente di passaggio, te la spieghi così bene da sembrarti incredibile il non averla compresa prima, da farti addirittura intravedere che, tutto sommato, la spiegazione l’avevi davanti al naso ma non ci arrivavi, malgrado le lezioni supplementari, i recuperi di notte e gli sforzi messi in campo fino allo stremo. Qualche volta, l’insegnante di fortuna, che capita lì per caso, nemmeno sapeva che da lì a poco ti avrebbe concentrato l’intero Bignami della vita sorseggiando il caffè.
E quando pensi di averla capita, interiorizzata e fatta tua, i soliti conti che non tornano mai ti presentano il conto rimasto sospeso. Rifai il calcolo e ogni volta che ti ci cimenti, scopri un risultato sempre differente.
Ad una ventina di giorni dalla frana, in prossimità dell’anti vigilia di un Natale diverso da tutti gli altri, un gruppo eterogeneo si è dato convegno, ufficialmente per salutarsi prima del Natale: a nessuno, infatti, è saltato in mente di pensare di scambiarsi gli auguri. Di fatto, se vogliamo dirla tutta, lo scambio c’è stato, solo che invece degli artefatti “a te e famiglia” ci siamo scambiati flash, barlumi di vita, sprazzi di ricordi, frammenti di anima che cade a pezzi e che nessuno raccoglie. E con quei frammenti ci siamo tutti un po’ tagliuzzati il cuore, riaprendo ferite che speravamo essersi rimarginate col poco tempo trascorso.
Ci siamo accomodati, avviluppati nei cappotti, sedendoci nei terzi e quarti posti di una schiera di sedie che, la mattina ed il giorno prima, avevano visto la passerella di istituzioni, cameramen ed etichette varie.
All’arrivo del Vescovo Pascarella, qualcuno, bonariamente sollecitato, ha refrattariamente guadagnato una seconda fila, che dalla terza in poi erano tutte già presidiate. Quel primo posto, rimaneva vuoto, forse per chi non c’era, forse per chi non aveva fatto in tempo ad esserci o, forse, solo per chi doveva esserci ma per qualche strana ragione che sfugge alle logiche umane, di fatto non era presente fisicamente. L’assenza che si fa presenza quando manca, il vuoto che riempie lo spazio di smarrimento.
Ci siamo guardati intorno, qualche volto sembrava familiare, molti, invece, ci siamo chiesti tutti da dove uscissero. Chi stava a nord non ha mai visto quelli che stavano a sud, chi operava ad est non conosceva i volti di chi operava a ovest.
Ed è stato così che ci siamo resi conto di come una intera, eterogenea comunità, senza distinzione di razza, età, confine, religione, ideologia, colore politico o altre amenità, si fosse riunita in maniera spontanea nel fare. Già da quella mattina stessa. Ognuno di loro ha pensato di dover fare qualcosa, non era ben chiaro cosa, ma ognuno ha iniziato a farla con l’esserci.
Chi è riuscito a raggiungere le zone alte di Casamicciola, ha iniziato a spalare il fango, con lo stesso piglio di chi in mare aperto, con una falla nella barca che imbarca acqua, la raccoglie con un secchiello e la ributta a mare. Con la speranza di essere più veloci e di non affondare. O non del tutto, o almeno che l’acqua, o il fango, arrivi solo fino alle ginocchia.
Chi era a monte ha spalato fango e detriti verso valle. Quel fango che sembrava non finire mai, che per ogni carriola riempita sembrava essercene altre ventimila da riempire, il tempo di girarti per tirare su col naso, stringere i denti e far sparire una lacrima, ed era già svuotata e in attesa di altre pale che la riempissero ancora, ancora e poi ancora.
Chi era a valle ha organizzato, smistato, telefonato, accolto, accompagnato. E chi era ovunque, tra valle e monte, tra centro e periferia, o solo dall’altra parte dell’isola, ha portato caffè, preparato da qualcuno, accompagnato persone, da un punto all’altro, versato the, preparato da qualcun altro nei thermos, recuperato attrezzi, regalati da vari negozi di ferramenta e non, distribuito pasti, confezionati da cucine all’uopo predisposte, e calzato stivali, dopo aver svaligiato chiunque ne avesse un paio ovunque, regalato merende, confezionate alla meno peggio da qualcun altro ancora e sostituito pale, dopo aver fatto man bassa tra gli attrezzi di famiglia, tra i negozi rimasti aperti e sgabuzzini rovistati; per quanto possibile, c’è stato anche chi ha portato qualche sparuto, accennato, sorriso che, con quel freddo dell’anima, intriso di fango, pioggia e lacrime gelate, dentro e fuori, ricordava più una paresi, causata dalla improvvisa, intensa, violenta emozione, comunemente detta shock e che sul momento ciascuno fa finta che non gli appartiene.
Gli effetti di tanto notevole e violento sconvolgimento li annovereremo più in là, come quando col covid ci siamo resi conto, dopo un anno e più, di aver collezionato fobie, manie, traumi e latenti frustrazioni. Catalogheremo, forse, e – se saremo fortunati – un giorno ci spiegheremo una reazione o una chiusura, un cambiamento o una rigidità. Ora no, è ancora presto, c’è da fare e la ferita ancora sanguina. Confidiamo che quell’insegnante di passaggio, per una fortunata coincidenza, ancora una volta ci spieghi la lezione e, magari, ci rimetta insieme i brandelli d’anima, caduti e persi tra un “Celario” ed un “Rarone”.
In una sala predisposta alla meno peggio, all’interno dell’Episcopio, il vescovo Gennaro Pascarella ha voluto incontrare il popolo dei volontari, per stringersi un po’, guardarsi in faccia e dirsi arrivederci e grazie, come direbbe una canzone di Amedeo Minghi “Senza più rallegramenti né la tristezza adatta, ad un momento che è così.. senza prima né dopo te così, se tutto passa o se il peggio verrà dopo, o verrà il meglio. Rivederci e grazie.”
Non c’erano tutti, molti lavoravano, tanti sono tornati a casa loro in terraferma, qualcuno, le cui difese immunitarie hanno retto fino allo stremo, si è influenzato, i più erano semplicemente spossati e per quanto solidali non hanno avuto né forza, né animo di presenziare. Pochi rappresentanti di molte categorie, hanno comunque occupato la sala; abiti smacchiati e scarpe senza fango, giovani volontari, improvvisamente e inesorabilmente logorati dall’interno, diventati già grandi.
Nella proposta di raccontare ognuno qualcosa che lo ha segnato e che vuole condividere, il mormorio della sala indica un nome, Roberta, quella con la casacca arancione Caritas, quella restia a parlare. Il suo aver interiorizzato ogni sguardo, ogni percorso, ogni fallimento non le consente di esprimere o condividere una sola cosa più di ogni altra, e su tutte si solleva in sala un “io l’ho vista”, a valle, nel “COC”, a monte, per strada. Roberta è uno di quei tasselli che è stata vista da tutti e ovunque.
Mario è quello che si è inventato, tra le altre, il montacarichi di fortuna: per far arrivare il caffè a chi lavorava in alto, posti non accessibili ai più, infilava nella pancia dell’escavatore la bottiglina ed i bicchierini, che elevati fino alla massima estensione, arrivava alle mani sporche di terra e fango che a loro volta lo distribuivano. Mario parla di gesti concreti ed affianca a queste realtà, improvvisate fantasiosamente sul posto, l’aver individuato un metodo per consegnare tutto il dolore, assunto durante il giorno, al Signore, in offerta, alla sera prima di chiudere gli occhi.
Per Davide c’è stato un momento, piccolo, iniziale, di blocco. Velocemente dissolto passando dalla paura all’operatività. Condivide con Vescovo e presenti una sensazione “le forze sembravano non esaurirsi mai, pur attraversando il dolore, abbiamo pensato che l’unico modo che avevamo per qualcosa è stato farlo”.
Francesca vorrebbe parlare ma il pianto ed i singhiozzi forzati al silenzio non glielo consentono. Ha le scarpe bianche, come quelle dei giovani della sua età, ha davanti agli occhi ancora una montagna di fango che le oscura i pensieri, i ricordi, le immagini passate al setaccio che però è rimasto sporco di detriti, terra e disperazione. Riesce solo a dire che la scoperta più clamorosa è stata di essersi accorta che non c’era bisogno di grandi cose, era sufficiente un minimo da parte di tutti.
Bruno solo ora che ripensa ai primi momenti, li riguarda come in un fermo immagine e sente ancora addosso l’adrenalina che si è scatenata, glielo si legge dalle pupille dilatate, dalla postura fremente, sbilanciata in avanti, come se da un momento all’altro dovesse scattare dalla sedia per andare a vincere i 100 metri. Forse quel percorso lo ha fatto davvero, lasciando indietro l’indifferenza di tanti e superando il traguardo con chi è riuscito a raggiungere perché si era anticipato o aspettando chi è arrivato dopo e dunque rallentando, per arrivarci insieme, alla fine della storia, né prima né dopo nessuno.
Enrico ha messo in campo l’esperienza in materia di ospitalità, ha 20 anni e si dichiara agnostico, lui con la Chiesa e le sue dinamiche, non c’entra proprio niente. Nessun circuito diocesano, nessuna etichetta sotto la quale campeggiare, nessun adesivo sul parabrezza per poter passare: ha smistato, organizzato, pensato alla rubrica da far scorrere per poter sistemare chi da un momento all’altro si è visto risucchiare casa, cucina, certezze, letto caldo e peluche. Quando Davide parla di Chiesa sinodale e di porte spalancate a tutti, compreso chi in chiesa non ci è mai entrato, credo parli di tutti gli Enrico che si sono presentati a un appello che nessuno ha fatto, che hanno risposto “eccomi” a una silenziosa chiamata per nome.
Sara racconta che nelle fasi immediatamente successive alla deflagrazione della notizia, ha provato a mettere un po’ di ordine tra le cose a cui pensare, quelle da fare nell’immediato e le emozioni intense che si infiltravano tra le notizie certe e le fake news che nel tam tam dei social arrivavano come onde d’urto che invece di fare da scossa di assestamento destabilizzavano ancora di più il precario o quasi inesistente equilibrio che ciascuno di loro indossava prima di andare in scena. Il primo messaggio forte, chiaro, come un ordine perentorio, quasi arrivasse dall’Alto fu “Aprire il centro Papa Francesco e compattarci per poi distribuirci. Esserci innanzitutto, che poi il da farsi è venuto da sè”.
Giuseppe è un ragazzo di cui parlano gli altri, la mascotte del gruppo, il più piccolo ed il più tenace. I coetanei più grandi hanno fatto fatica a tenerlo impegnato al centro poiché il suo spirito ribelle ed operoso avrebbe voluto volare tra gli angeli del fango, quelli che spalavano a monte. La comunità spontanea si è raccolta intorno a lui e ne ha preservato la minore età anche se poi, Mario sussurra che eludendo i controlli, qualche scappata gliel’ha fatta fare, portandoselo con sé per qualche breve e fulminea consegna. Ma questo rimarrà un segreto, tra noi ed il Nostro Complice che di tanto in tanto, ci strizzava l’occhiolino.
Chi ha aperto il Centro ed ha accolto i volontari, chi ha aperto le strutture ed ha accolto gli sfollati, chi ha aperto il cuore ed ha assunto su di sé la sofferenza nella preghiera, chi poi, come Angela, ha aperto la cucina, quella cucina che un tempo fu voluta da un parroco sognatore, don Carlo Candido, tra ostacoli ed impedimenti, tutte benedizioni che ne videro poi l’inaugurazione con il Vescovo Pietro Lagnese.
Ad uno ad uno, i fornelli si sono accesi, iniziando con un paio di pentoloni con l’acqua per la pasta, messa lì a bollire per quando qualcuno aprirà i pacchi e qualcun altro preparerà il condimento; una teglia alla volta, il forno è stato messo in funzione e, specie sulle prime caotiche giornate, i pasti sono stati preparati sì da volontari volenterosi, ma in combutta con una Provvidenza che ha messo insieme Chef stellati, titolari di ristoranti, impiegati statali, casalinghe, e i più disparati ed eterogenei soggetti che armati di grembiule, guanti e copricapo, hanno iniziato subito, dalla sera alla mattina, a pelare patate, sbucciare cipolle, confezionare monoporzioni con vaschette e carta argentata. Il locale adibito a deposito di alimenti si riempiva rapidamente, e altrettanto velocemente si svuotava man mano che si cucinava, man mano che le provviste venivano reintegrate.
Angela racconta quel che ricorda ma ancora oggi non se lo riesce a spiegare bene come è potuto accadere che da una piccola cucina siano riusciti a prendere il volo finanche 450 pasti alla volta. Ricorda che c’era un viavai di gente in ordine composto, quasi in fila indiana, chi portava alimenti da preparare e chi prendeva pasti da distribuire. Nelle retrovie chi lavava le verdure, chi smistava le porzioni, chi pensava ai più piccoli con un pasto diverso e più allettante e nella chiusura sigillava un sorriso e un bacio. E chi pianificava i pasti, perché non fossero monotoni ed avessero comunque quel tocco di variante da renderli gradevoli agli occhi ed al cuore, malgrado tutto.
Oggi più di allora è apparso evidente che non è stato un caso, il nome scelto da don Carlo quando nacque: “Betania”, la cucina del centro parrocchiale: non necessariamente per ricordarne la casa di povertà come l’aramaico, se pur controverso, imporrebbe, quanto per dare vita e aspirare a un luogo di amicizia, fratellanza, accoglienza, un posto in cui sentirsi al sicuro, in famiglia, come Gesù si sentiva ogni volta che poteva passarci, a casa dei suoi amici più stretti, Marta, Lazzaro, Maria di Betania. Un luogo dove si dona quel che si riceve, proprio come era nell’intento del sacerdote che l’ha sognata ed edificata, e proprio come è accaduto nei periodi di emergenza. Si è donato quanto si è ricevuto ed è stato davvero tanto. La parte migliore? Il silenzio della piccola cappella, affianco alla cucina, dove chi entrava, anche con gli stivali sporchi di fango, anche con gli abiti logori di terra e detriti, anche con i cuori gonfi di tristezza, cercava e trovava conforto, perché “senza Dio, siamo troppo poveri per aiutare i poveri” – Madre Teresa di Calcutta.
“È avanzata molta frutta, chi ha donato è stato davvero generoso” – Angela, Luisa, Martina, Andrea, tranquillizzano la platea, rimasta col fiato sospeso, “per non disperdere nulla e perché nulla di tutto questo vada perduto ne abbiamo fatto marmellate, così da guarnire torte, crostate o biscotti, per quando si riaprirà o ce ne sarà bisogno”.
E non è un caso, se non fortemente voluto, che il Centro pastorale parrocchiale San Giovan Giuseppe della Croce sia stato da sempre il punto Caritas Parrocchiale da cui è partita ed è convogliata la solidarietà in sinergia con Il Centro Caritas Diocesano del Papa Francesco, che di fatto una cucina non la ha.
Tutte realtà satelliti che con le altre realtà dislocate dall’altra parte dell’Isola, come la Mensa del Sorriso a Casamicciola o come la “Cittadella di Forio” o come le cucine di fortuna approntate da qualche albergatore misericordioso, convogliate in un unico sistema, poiché sebbene separati, interagendo tra loro hanno assunto nelle loro diversità, un’unica direzione. (Paul Dirac apprezzerebbe).
Simona, quando tocca il suo turno, lascia trasparire una punta di malcelato e sornione disagio quando dice di essersi presa la parte migliore di questa avventura (per rimanere in tema di amicizia a Betania, come fece Maria mentre Marta si agitava): il coordinamento per l’animazione per i bambini; “ci siamo fatti piccoli per i piccoli” e tra loro c’era anche chi si portava addosso le paure mai risolte del terremoto. Ha giocato, ha abbracciato, ha custodito i piccoli e, coinvolgendoli, anche i grandi. I sorrisi a metà, quella croce da rispolverare, risollevare e poi abbracciare, gli occhi stretti a cercare di capire se ci si poteva fidare o meno, il voler stare insieme, tutti insieme, è un puzzle di momenti che non scorderà mai più, tanto da farle affermare con granitica certezza che “ora sappiamo che l’uno c’è e ci sarà per l’altro, dovesse mai essercene ancora bisogno”.
Ce ne sarà, Simona, Sara, Bruno, tutti. Ci sarà ancora bisogno di voi, di noi, di stare insieme, tutti. Perché nessuno si salva da solo ed oggi siamo tutti un po’ più poveri e bisognosi e ciascuno è arcobaleno, ognuno con il proprio colore, compito, possibilità, disponibilità. Abbiamo solo bisogno di qualcuno che ce lo ricordi e che ci restituisca il ricordo per quando soffriremo di amnesia.
“Alla fine della giornata”, dice Erika, che per farla tornare a casa bisognava cacciarla fuori, “ognuno di noi ha detto “grazie”. Per quel che è stato per quel che è accaduto, per quanto ha arricchito e grazie anche per quello che ha tolto.”
Grazie a prescindere, per quanti eravamo, messi insieme in maniera più disparata e diversificata, ciascuno con la propria peculiarità, attitudine, capacità, con il proprio credo, come quello di Enrico, agnostico dalla nascita, che quando parla tradisce entusiasmo, solidarietà, fratellanza, accoglienza. Sa di buono Enrico, lui che non è cattolico, lui che non entra in Chiesa, lui che puzza di solidarietà, di valori, di sinodalità; se solo ce ne fossero di più di agnostici come lui tra i cristiani cattolici, questo mondo sarebbe certamente un posto migliore.
Quel che resta dopo tanto fango, dopo tanti detriti, dopo tante macerie, resta imbrigliato sulla rete del setaccio come le pepite preziose dei cercatori d’oro. Sono domande, in cerca di risposte, sono risposte in assenza di domande. Sono ragazzi seduti sulle sedie di una stanza dell’episcopio e sono sedie vuote di chi non c’è perché non ha potuto o anche non ha voluto. Volti ancora imbrigliati nella paura del fare e del come farlo, cuori ancora ammaccati per una organizzazione che è partita e che non rientra più nei ranghi della normalità perché da quel 26 novembre più nulla tornerà normale e nessuno sarà più lo stesso.
Mimmo aggiunge che tutti, chi più chi meno, si sono sentiti smarriti e anche se impauriti sono rimasti attorno alla croce della sofferenza che hanno vissuto, ci si sono stretti intorno, rimanendo abbracciati. Ora servirebbe che tutto quel che è stato non vada sprecato, servirebbe che qualcuno si prenda la responsabilità e il carico umano di coordinare tante forze, anche le più disparate e lenire con comprensione, amore, compassione, le ferite che ognuno di loro si porta dietro da questa storia affinché il dolore si trasformi in gioia, il buio in luce, la disperazione in speranza.
Se si riuscisse a farne tesoro, tutto il dolore sentito non andrà sprecato, se solo riuscissimo ad imparare ad esplorare nuove forme organizzative, se riuscissimo ad imparare a imparare per poi insegnare, per poi condividere ed essere a nostra volta d’esempio allora sì che potremmo celebrare il Natale senza lasciare fuori il Festeggiato.
I giovani fanno cose e mentre le fanno, ma anche dopo, chiedono una guida, un riferimento, un modus operandi che possa essere un punto di partenza e di arrivo per quanti vorranno farsi piccoli tra i piccoli e sentirsi chiamati per nome, poiché ciascuno di loro, in realtà, è stato chiamato per nome e ne ha subito il richiamo rispondendo all’appello.
Laviamo quel setaccio con acqua corrente, con pazienza, con comprensione, compassione, perché possa filtrare le cose migliori e lasciar andare quelle meno belle, quelle dolorose, quelle a cui non possiamo consentire, come comunità, di irretire, ipotecare il futuro e adombrare la speranza dei giovani. L’emergenza non è finita: ora dobbiamo imparare da qualcuno che ci insegni a mantenere alta l’attenzione e a saper rispondere meglio di oggi a chi ci chiama per nome.
Eleonora, Francesco, Maria Teresa, Maurizio, Giovanna, Giovangiuseppe, Nikolinka, Michele, Gianluca, Salvatore, Valentina, Maria Teresa, e tutti gli altri che si sono smarriti e pietrificati nel dolore:
“Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare”
Isaia 43
Che qualcuno lo ricordi a tutti noi e ci insegni ad impararlo, ci insegni ad insegnarlo.
Le nostre risorse più belle hanno bisogno di sentirsi chiamati per nome.
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Qualche volta capita che un insegnante di fortuna, apparentemente di passaggio, te la spieghi così bene da sembrarti incredibile il non averla compresa prima, da farti addirittura intravedere che, tutto sommato, la spiegazione l’avevi davanti al naso ma non ci arrivavi, malgrado le lezioni supplementari, i recuperi di notte e gli sforzi messi in campo fino allo stremo. Qualche volta, l’insegnante di fortuna, che capita lì per caso, nemmeno sapeva che da lì a poco ti avrebbe concentrato l’intero Bignami della vita sorseggiando il caffè.
E quando pensi di averla capita, interiorizzata e fatta tua, i soliti conti che non tornano mai ti presentano il conto rimasto sospeso. Rifai il calcolo e ogni volta che ti ci cimenti, scopri un risultato sempre differente.
Ad una ventina di giorni dalla frana, in prossimità dell’anti vigilia di un Natale diverso da tutti gli altri, un gruppo eterogeneo si è dato convegno, ufficialmente per salutarsi prima del Natale: a nessuno, infatti, è saltato in mente di pensare di scambiarsi gli auguri. Di fatto, se vogliamo dirla tutta, lo scambio c’è stato, solo che invece degli artefatti “a te e famiglia” ci siamo scambiati flash, barlumi di vita, sprazzi di ricordi, frammenti di anima che cade a pezzi e che nessuno raccoglie. E con quei frammenti ci siamo tutti un po’ tagliuzzati il cuore, riaprendo ferite che speravamo essersi rimarginate col poco tempo trascorso.
Ci siamo accomodati, avviluppati nei cappotti, sedendoci nei terzi e quarti posti di una schiera di sedie che, la mattina ed il giorno prima, avevano visto la passerella di istituzioni, cameramen ed etichette varie.
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Ci siamo guardati intorno, qualche volto sembrava familiare, molti, invece, ci siamo chiesti tutti da dove uscissero. Chi stava a nord non ha mai visto quelli che stavano a sud, chi operava ad est non conosceva i volti di chi operava a ovest.
Ed è stato così che ci siamo resi conto di come una intera, eterogenea comunità, senza distinzione di razza, età, confine, religione, ideologia, colore politico o altre amenità, si fosse riunita in maniera spontanea nel fare. Già da quella mattina stessa. Ognuno di loro ha pensato di dover fare qualcosa, non era ben chiaro cosa, ma ognuno ha iniziato a farla con l’esserci.
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Chi era a monte ha spalato fango e detriti verso valle. Quel fango che sembrava non finire mai, che per ogni carriola riempita sembrava essercene altre ventimila da riempire, il tempo di girarti per tirare su col naso, stringere i denti e far sparire una lacrima, ed era già svuotata e in attesa di altre pale che la riempissero ancora, ancora e poi ancora.
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Gli effetti di tanto notevole e violento sconvolgimento li annovereremo più in là, come quando col covid ci siamo resi conto, dopo un anno e più, di aver collezionato fobie, manie, traumi e latenti frustrazioni. Catalogheremo, forse, e – se saremo fortunati – un giorno ci spiegheremo una reazione o una chiusura, un cambiamento o una rigidità. Ora no, è ancora presto, c’è da fare e la ferita ancora sanguina. Confidiamo che quell’insegnante di passaggio, per una fortunata coincidenza, ancora una volta ci spieghi la lezione e, magari, ci rimetta insieme i brandelli d’anima, caduti e persi tra un “Celario” ed un “Rarone”.
In una sala predisposta alla meno peggio, all’interno dell’Episcopio, il vescovo Gennaro Pascarella ha voluto incontrare il popolo dei volontari, per stringersi un po’, guardarsi in faccia e dirsi arrivederci e grazie, come direbbe una canzone di Amedeo Minghi “Senza più rallegramenti né la tristezza adatta, ad un momento che è così.. senza prima né dopo te così, se tutto passa o se il peggio verrà dopo, o verrà il meglio. Rivederci e grazie.”
Non c’erano tutti, molti lavoravano, tanti sono tornati a casa loro in terraferma, qualcuno, le cui difese immunitarie hanno retto fino allo stremo, si è influenzato, i più erano semplicemente spossati e per quanto solidali non hanno avuto né forza, né animo di presenziare. Pochi rappresentanti di molte categorie, hanno comunque occupato la sala; abiti smacchiati e scarpe senza fango, giovani volontari, improvvisamente e inesorabilmente logorati dall’interno, diventati già grandi.
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Mario è quello che si è inventato, tra le altre, il montacarichi di fortuna: per far arrivare il caffè a chi lavorava in alto, posti non accessibili ai più, infilava nella pancia dell’escavatore la bottiglina ed i bicchierini, che elevati fino alla massima estensione, arrivava alle mani sporche di terra e fango che a loro volta lo distribuivano. Mario parla di gesti concreti ed affianca a queste realtà, improvvisate fantasiosamente sul posto, l’aver individuato un metodo per consegnare tutto il dolore, assunto durante il giorno, al Signore, in offerta, alla sera prima di chiudere gli occhi.
Per Davide c’è stato un momento, piccolo, iniziale, di blocco. Velocemente dissolto passando dalla paura all’operatività. Condivide con Vescovo e presenti una sensazione “le forze sembravano non esaurirsi mai, pur attraversando il dolore, abbiamo pensato che l’unico modo che avevamo per qualcosa è stato farlo”.
Francesca vorrebbe parlare ma il pianto ed i singhiozzi forzati al silenzio non glielo consentono. Ha le scarpe bianche, come quelle dei giovani della sua età, ha davanti agli occhi ancora una montagna di fango che le oscura i pensieri, i ricordi, le immagini passate al setaccio che però è rimasto sporco di detriti, terra e disperazione. Riesce solo a dire che la scoperta più clamorosa è stata di essersi accorta che non c’era bisogno di grandi cose, era sufficiente un minimo da parte di tutti.
Bruno solo ora che ripensa ai primi momenti, li riguarda come in un fermo immagine e sente ancora addosso l’adrenalina che si è scatenata, glielo si legge dalle pupille dilatate, dalla postura fremente, sbilanciata in avanti, come se da un momento all’altro dovesse scattare dalla sedia per andare a vincere i 100 metri. Forse quel percorso lo ha fatto davvero, lasciando indietro l’indifferenza di tanti e superando il traguardo con chi è riuscito a raggiungere perché si era anticipato o aspettando chi è arrivato dopo e dunque rallentando, per arrivarci insieme, alla fine della storia, né prima né dopo nessuno.
Enrico ha messo in campo l’esperienza in materia di ospitalità, ha 20 anni e si dichiara agnostico, lui con la Chiesa e le sue dinamiche, non c’entra proprio niente. Nessun circuito diocesano, nessuna etichetta sotto la quale campeggiare, nessun adesivo sul parabrezza per poter passare: ha smistato, organizzato, pensato alla rubrica da far scorrere per poter sistemare chi da un momento all’altro si è visto risucchiare casa, cucina, certezze, letto caldo e peluche. Quando Davide parla di Chiesa sinodale e di porte spalancate a tutti, compreso chi in chiesa non ci è mai entrato, credo parli di tutti gli Enrico che si sono presentati a un appello che nessuno ha fatto, che hanno risposto “eccomi” a una silenziosa chiamata per nome.
Sara racconta che nelle fasi immediatamente successive alla deflagrazione della notizia, ha provato a mettere un po’ di ordine tra le cose a cui pensare, quelle da fare nell’immediato e le emozioni intense che si infiltravano tra le notizie certe e le fake news che nel tam tam dei social arrivavano come onde d’urto che invece di fare da scossa di assestamento destabilizzavano ancora di più il precario o quasi inesistente equilibrio che ciascuno di loro indossava prima di andare in scena. Il primo messaggio forte, chiaro, come un ordine perentorio, quasi arrivasse dall’Alto fu “Aprire il centro Papa Francesco e compattarci per poi distribuirci. Esserci innanzitutto, che poi il da farsi è venuto da sè”.
Giuseppe è un ragazzo di cui parlano gli altri, la mascotte del gruppo, il più piccolo ed il più tenace. I coetanei più grandi hanno fatto fatica a tenerlo impegnato al centro poiché il suo spirito ribelle ed operoso avrebbe voluto volare tra gli angeli del fango, quelli che spalavano a monte. La comunità spontanea si è raccolta intorno a lui e ne ha preservato la minore età anche se poi, Mario sussurra che eludendo i controlli, qualche scappata gliel’ha fatta fare, portandoselo con sé per qualche breve e fulminea consegna. Ma questo rimarrà un segreto, tra noi ed il Nostro Complice che di tanto in tanto, ci strizzava l’occhiolino.
Chi ha aperto il Centro ed ha accolto i volontari, chi ha aperto le strutture ed ha accolto gli sfollati, chi ha aperto il cuore ed ha assunto su di sé la sofferenza nella preghiera, chi poi, come Angela, ha aperto la cucina, quella cucina che un tempo fu voluta da un parroco sognatore, don Carlo Candido, tra ostacoli ed impedimenti, tutte benedizioni che ne videro poi l’inaugurazione con il Vescovo Pietro Lagnese.
Ad uno ad uno, i fornelli si sono accesi, iniziando con un paio di pentoloni con l’acqua per la pasta, messa lì a bollire per quando qualcuno aprirà i pacchi e qualcun altro preparerà il condimento; una teglia alla volta, il forno è stato messo in funzione e, specie sulle prime caotiche giornate, i pasti sono stati preparati sì da volontari volenterosi, ma in combutta con una Provvidenza che ha messo insieme Chef stellati, titolari di ristoranti, impiegati statali, casalinghe, e i più disparati ed eterogenei soggetti che armati di grembiule, guanti e copricapo, hanno iniziato subito, dalla sera alla mattina, a pelare patate, sbucciare cipolle, confezionare monoporzioni con vaschette e carta argentata. Il locale adibito a deposito di alimenti si riempiva rapidamente, e altrettanto velocemente si svuotava man mano che si cucinava, man mano che le provviste venivano reintegrate.
Angela racconta quel che ricorda ma ancora oggi non se lo riesce a spiegare bene come è potuto accadere che da una piccola cucina siano riusciti a prendere il volo finanche 450 pasti alla volta. Ricorda che c’era un viavai di gente in ordine composto, quasi in fila indiana, chi portava alimenti da preparare e chi prendeva pasti da distribuire. Nelle retrovie chi lavava le verdure, chi smistava le porzioni, chi pensava ai più piccoli con un pasto diverso e più allettante e nella chiusura sigillava un sorriso e un bacio. E chi pianificava i pasti, perché non fossero monotoni ed avessero comunque quel tocco di variante da renderli gradevoli agli occhi ed al cuore, malgrado tutto.
Oggi più di allora è apparso evidente che non è stato un caso, il nome scelto da don Carlo quando nacque: “Betania”, la cucina del centro parrocchiale: non necessariamente per ricordarne la casa di povertà come l’aramaico, se pur controverso, imporrebbe, quanto per dare vita e aspirare a un luogo di amicizia, fratellanza, accoglienza, un posto in cui sentirsi al sicuro, in famiglia, come Gesù si sentiva ogni volta che poteva passarci, a casa dei suoi amici più stretti, Marta, Lazzaro, Maria di Betania. Un luogo dove si dona quel che si riceve, proprio come era nell’intento del sacerdote che l’ha sognata ed edificata, e proprio come è accaduto nei periodi di emergenza. Si è donato quanto si è ricevuto ed è stato davvero tanto. La parte migliore? Il silenzio della piccola cappella, affianco alla cucina, dove chi entrava, anche con gli stivali sporchi di fango, anche con gli abiti logori di terra e detriti, anche con i cuori gonfi di tristezza, cercava e trovava conforto, perché “senza Dio, siamo troppo poveri per aiutare i poveri” – Madre Teresa di Calcutta.
“È avanzata molta frutta, chi ha donato è stato davvero generoso” – Angela, Luisa, Martina, Andrea, tranquillizzano la platea, rimasta col fiato sospeso, “per non disperdere nulla e perché nulla di tutto questo vada perduto ne abbiamo fatto marmellate, così da guarnire torte, crostate o biscotti, per quando si riaprirà o ce ne sarà bisogno”.
E non è un caso, se non fortemente voluto, che il Centro pastorale parrocchiale San Giovan Giuseppe della Croce sia stato da sempre il punto Caritas Parrocchiale da cui è partita ed è convogliata la solidarietà in sinergia con Il Centro Caritas Diocesano del Papa Francesco, che di fatto una cucina non la ha.
Tutte realtà satelliti che con le altre realtà dislocate dall’altra parte dell’Isola, come la Mensa del Sorriso a Casamicciola o come la “Cittadella di Forio” o come le cucine di fortuna approntate da qualche albergatore misericordioso, convogliate in un unico sistema, poiché sebbene separati, interagendo tra loro hanno assunto nelle loro diversità, un’unica direzione. (Paul Dirac apprezzerebbe).
Simona, quando tocca il suo turno, lascia trasparire una punta di malcelato e sornione disagio quando dice di essersi presa la parte migliore di questa avventura (per rimanere in tema di amicizia a Betania, come fece Maria mentre Marta si agitava): il coordinamento per l’animazione per i bambini; “ci siamo fatti piccoli per i piccoli” e tra loro c’era anche chi si portava addosso le paure mai risolte del terremoto. Ha giocato, ha abbracciato, ha custodito i piccoli e, coinvolgendoli, anche i grandi. I sorrisi a metà, quella croce da rispolverare, risollevare e poi abbracciare, gli occhi stretti a cercare di capire se ci si poteva fidare o meno, il voler stare insieme, tutti insieme, è un puzzle di momenti che non scorderà mai più, tanto da farle affermare con granitica certezza che “ora sappiamo che l’uno c’è e ci sarà per l’altro, dovesse mai essercene ancora bisogno”.
Ce ne sarà, Simona, Sara, Bruno, tutti. Ci sarà ancora bisogno di voi, di noi, di stare insieme, tutti. Perché nessuno si salva da solo ed oggi siamo tutti un po’ più poveri e bisognosi e ciascuno è arcobaleno, ognuno con il proprio colore, compito, possibilità, disponibilità. Abbiamo solo bisogno di qualcuno che ce lo ricordi e che ci restituisca il ricordo per quando soffriremo di amnesia.
“Alla fine della giornata”, dice Erika, che per farla tornare a casa bisognava cacciarla fuori, “ognuno di noi ha detto “grazie”. Per quel che è stato per quel che è accaduto, per quanto ha arricchito e grazie anche per quello che ha tolto.”
Grazie a prescindere, per quanti eravamo, messi insieme in maniera più disparata e diversificata, ciascuno con la propria peculiarità, attitudine, capacità, con il proprio credo, come quello di Enrico, agnostico dalla nascita, che quando parla tradisce entusiasmo, solidarietà, fratellanza, accoglienza. Sa di buono Enrico, lui che non è cattolico, lui che non entra in Chiesa, lui che puzza di solidarietà, di valori, di sinodalità; se solo ce ne fossero di più di agnostici come lui tra i cristiani cattolici, questo mondo sarebbe certamente un posto migliore.
Quel che resta dopo tanto fango, dopo tanti detriti, dopo tante macerie, resta imbrigliato sulla rete del setaccio come le pepite preziose dei cercatori d’oro. Sono domande, in cerca di risposte, sono risposte in assenza di domande. Sono ragazzi seduti sulle sedie di una stanza dell’episcopio e sono sedie vuote di chi non c’è perché non ha potuto o anche non ha voluto. Volti ancora imbrigliati nella paura del fare e del come farlo, cuori ancora ammaccati per una organizzazione che è partita e che non rientra più nei ranghi della normalità perché da quel 26 novembre più nulla tornerà normale e nessuno sarà più lo stesso.
Mimmo aggiunge che tutti, chi più chi meno, si sono sentiti smarriti e anche se impauriti sono rimasti attorno alla croce della sofferenza che hanno vissuto, ci si sono stretti intorno, rimanendo abbracciati. Ora servirebbe che tutto quel che è stato non vada sprecato, servirebbe che qualcuno si prenda la responsabilità e il carico umano di coordinare tante forze, anche le più disparate e lenire con comprensione, amore, compassione, le ferite che ognuno di loro si porta dietro da questa storia affinché il dolore si trasformi in gioia, il buio in luce, la disperazione in speranza.
Se si riuscisse a farne tesoro, tutto il dolore sentito non andrà sprecato, se solo riuscissimo ad imparare ad esplorare nuove forme organizzative, se riuscissimo ad imparare a imparare per poi insegnare, per poi condividere ed essere a nostra volta d’esempio allora sì che potremmo celebrare il Natale senza lasciare fuori il Festeggiato.
I giovani fanno cose e mentre le fanno, ma anche dopo, chiedono una guida, un riferimento, un modus operandi che possa essere un punto di partenza e di arrivo per quanti vorranno farsi piccoli tra i piccoli e sentirsi chiamati per nome, poiché ciascuno di loro, in realtà, è stato chiamato per nome e ne ha subito il richiamo rispondendo all’appello.
Laviamo quel setaccio con acqua corrente, con pazienza, con comprensione, compassione, perché possa filtrare le cose migliori e lasciar andare quelle meno belle, quelle dolorose, quelle a cui non possiamo consentire, come comunità, di irretire, ipotecare il futuro e adombrare la speranza dei giovani. L’emergenza non è finita: ora dobbiamo imparare da qualcuno che ci insegni a mantenere alta l’attenzione e a saper rispondere meglio di oggi a chi ci chiama per nome.
Eleonora, Francesco, Maria Teresa, Maurizio, Giovanna, Giovangiuseppe, Nikolinka, Michele, Gianluca, Salvatore, Valentina, Maria Teresa, e tutti gli altri che si sono smarriti e pietrificati nel dolore:
“Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare”
Isaia 43
Che qualcuno lo ricordi a tutti noi e ci insegni ad impararlo, ci insegni ad insegnarlo.
Le nostre risorse più belle hanno bisogno di sentirsi chiamati per nome.
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Rossella Novella
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