C’è metodo nella profezia
Per comprendere a fondo il significato del viaggio di papa Francesco in due Paesi emblematici delle contraddizioni che affliggono i bassifondi della Storia contemporanea: Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan, è anche importante riflettere sui fondamentali della teologia missionaria di Francesco.
Anzitutto, l’atteggiamento inclusivo che egli ha manifestato nei confronti di tanta umanità dolente. Basti pensare alle parole cariche d’affetto che ha rivolto al suo arrivo a Kinshasa: «Ho tanto desiderato essere qui e finalmente giungo a portarvi la vicinanza, l’affetto e la consolazione di tutta la Chiesa, e a imparare dal vostro esempio di pazienza, di coraggio e di lotta». Questo, in sostanza, significa che per «andare» (Chiesa in uscita) «in periferia» (locus per eccellenza della Missione) e essere «a fianco dei poveri», occorre comprendere, con il cuore e con la mente, che l’evangelizzazione non può prescindere dallo spirito di accoglienza nei confronti di ogni genere di alterità.
Già nell’Evangelii gaudium, all’inizio del suo ministero petrino, Francesco affermava: «La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno».
È proprio a partire da questo rapporto compassionevole che scaturisce la profezia che ha scandito la peregrinatio africana del Papa. La denuncia di mali antichi, ascrivibili alla mai abbastanza ricordata e biasimata Conferenza di Berlino (1884-85, nella quale gli europei si accordarono sulla spartizione dell’Africa), che oggi si ripropongono nella versione più ambigua e invasiva del cosiddetto neocolonialismo. Una denuncia, quella di papa Bergoglio, che ha trovato la sua sintesi nell’ esclamazione «Giù le mani dall’Africa!». Riferendosi in particolare all’ex Zaire, ha stigmatizzato che «Si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti… un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca».
Ma attenzione, Francesco ha interpretato la profezia non solo come denuncia, in quanto ha anche indicato percorsi e iniziative che in alcuni casi hanno avuto e possono avere di più un felice riscontro dal punto di vista attuativo. Si tratta di un approccio metodologico importante che implica l’inserimento, ad esempio, a pieno titolo, della pastorale sociale in quella ordinaria delle diocesi africane. E qui la lista dei rimedi, che a dire il vero valgono in chiave universale, è davvero lunga: fuggire l’autoritarismo disarmando i cuori bellicosi; favorire libere elezioni, trasparenti e credibili; estendere ancora di più la partecipazione ai processi di pace alle donne, ai giovani, ai gruppi marginalizzati; rafforzare la limpida presenza dello Stato lottando contro la corruzione e contrastando le ingerenze straniere che destabilizzano intere aree geografiche… Tutto questo investe di responsabilità le comunità cristiane, cattoliche e di ogni altra tradizione e denominazione.
E qui, di nuovo, occorre fare attenzione. Quando parliamo di comunità siamo istintivamente portati a pensare che si tratti di una fraternità ad intra, tra coloro che condividono il battesimo e sono chiamati insieme, proprio come accadde ai discepoli di Emmaus, ad ascoltare la Parola e a spezzare il Pane nel Suo nome. In effetti, l’indirizzo del Papa nella Fratelli tutti è molto più estensivo. Richiamandosi alla testimonianza del povero frate di Assisi, egli ci ha ricordato che san Francesco «non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio» ed «è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna» (2-4). L’Enciclica si spinge ben oltre il recinto ecclesiale e mira a promuovere un’aspirazione mondiale alla fraternità e all’amicizia sociale. E così è stato nei discorsi che il Pontefice ha rivolto ai fedeli a Kinshasa e Juba.
Il punto di partenza di Francesco è la comune appartenenza alla famiglia umana, riconoscendoci fratelli perché figli e figlie di un unico Creatore, tutti sulla stessa barca, dunque bisognosi di prendere coscienza che in un mondo globalizzato e interconnesso nessuno si salva da solo.
Fonte: Giulio Albanese – Avvenire