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La mancata assoluzione

Non è tanto il confessore a negare l’assoluzione ma è il penitente a mettersi in questa condizione.

L’appello alla conversione e alla penitenza non ha come obiettivo opere esteriori, vestirsi con il sacco e/o cospargersi il capo di ceneri, ma la conversione del cuore, la trasformazione interiore. Senza questa, i ravvedimenti rimangono sterili; tuttavia, la conversione interiore si esprime con segni visibili, gesti e opere di penitenza. Il pentimento interiore è un radicale riorientamento o emendamento di tutta la vita, un ritorno, una conversione a Dio con tutto il cuore, l’allontanamento dal male, la ripugnanza per il male e naturalmente il proponimento di non ricadere nuovamente in situazioni peccaminose.

Questa conversione del cuore è accompagnata da un dolore e da una tristezza salutari, che i Padri chiamano “animi cruciatus” (afflizione dello spirito) e “compunctio cordis” (pentimento del cuore). Quando non esiste un solido intento, una ferma volontà di emendarsi, al penitente può essere ritardata o negata l’assoluzione. In circostanze normali, quando non c’è pericolo di morte, per assolvere un penitente, cosciente e libero, il sacerdote dovrebbe cercare di comprendere almeno tre cose: se abbia effettivamente confessato tutti i peccati, se abbia in quel momento almeno un dolore imperfetto per i propri peccati e se abbia la volontà di effettivo cambiamento. Se manca una di queste tre condizioni, il sacerdote può negare l’assoluzione, non è un meccanismo automatico.

Le azioni del penitente e del sacerdote sono in relazione tra loro, come la materia di un sacramento è in relazione con la sua forma. I sacerdoti non possiedono poteri particolari per leggere le menti, ascoltando ciò che afferma il penitente e, con l’ausilio della grazia, sono generalmente in grado di discernere la verità. Un confessore può, a volte, tentare con prudenza e attenzione di “tirar fuori” o delucidare, per così dire, qualsiasi elemento necessario che apparentemente manca, come ad esempio il proposito di rinnovare la propria vita alla luce del Vangelo. Se infine una persona non mostra il proposito di emendarsi, cioè il penitente chiaramente non intende evitare di nuovo il peccato confessato, allora il sacerdote non può procedere all’assoluzione. La negazione dell’assoluzione è una “extrema ratio” che provoca un grande dolore non solo per il penitente ma anche per il confessore.

In realtà si dovrebbe ragionare sul fatto che non è tanto il confessore a negare l’assoluzione ma è il penitente a mettersi in questa condizione. Il penitente, infatti, pone una condizione ostativa attraverso la mancanza di pentimento o volontà di evitare le situazioni di peccato, che renderebbe l’assoluzione naturalmente invalida. La Chiesa chiede almeno un dolore imperfetto e un pentimento almeno consapevole; tuttavia, senza questo “minimum” la confessione sacramentale sarebbe ridotta a pura burocrazia e la misericordia di Dio sarebbe privata del suo carattere sacrificale che richiede rispetto, consapevolezza e responsabilità.

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