La cultura della morte è già tra noi, e non è solo una questione di aborto ed eutanasia
Quando ho iniziato a pensare a questo articolo, confesso che la prima idea di titolo che mi è venuta è stata “La cultura della morte è ormai tra noi – e non è solo una questione di aborto o eutanasia”. Mi è sembrato, però, troppo allarmista e deprimente, anche se vero, e allora ho optato per l’alternativa opposta, perché non c’è denuncia efficiente senza la possibilità di un’azione restaurativa, o almeno di una possibilità di ridurre i danni della realtà denunciata.
Le comunità cristiane cadono a volte in una trappola pericolosa. Nella Evangelium Vitae, Papa San Giovanni Paolo II ha denunciato l’aborto e l’eutanasia come i gesti più emblematici della “cultura della morte”, ma ciò non significa che siano le uniche manifestazioni di questo modo di vedere il mondo.
Se restringiamo la difesa della vita alla lotta all’aborto e all’eutanasia, smettiamo spesso di vedere altre minacce, oltre a non renderci conto della causa di questo fenomeno. Cosa forse ancor peggiore, possiamo lasciarci strumentalizzare da persone che in fondo vivono in base a una cultura della morte e si dichiarano semplicemente contro l’aborto e l’eutanasia per non farci vedere le loro altre azioni negative.
La causa del problema
Papa Francesco ha definito questa cultura “dello scarto”. La definizione può sembrare di minore impatto rispetto a “della morte”, ma permette di capire come il fenomeno sia più ampio (cfr. Fratelli tutti, FT 18-21). Poche persone sono disposte a commettere un omicidio, ma molte “scartano” altri, in modo diretto o indiretto. E scartare una persona può significare condannarla a morte.
Cosa c’è dietro questo fenomeno? Come possono delle brave persone, benintenzionate, affondare in questa mentalità? Noi stessi possiamo affondarci, visto che molte volte la condividiamo senza neanche rendercene conto.
Paradossalmente, la cultura della morte e dello scarto nasce da un’idolatria nei confronti della vita. Viviamo in una società che valorizza il piacere di vivere felici, di avere una vita piena di piaceri e di successi. Le reti sociali sono il registro più evidente di questa “dittatura del successo”: una raccolta interminabile di persone sorridenti, ben vestite, in luoghi paradisiaci, che mangiano piatti deliziosi e così via. È perfino di “cattivo gusto” o “politicamente scorretto” mostrarsi indifesi in un momento di difficoltà o sofferenza.
In un riflesso evidente di questo atteggiamento, qualunque minaccia al piacere, qualsiasi fonte di sofferenza, qualsiasi relazione che non sia piacevole dev’essere eliminata – anche se ciò significa scartare una persona, uccidere un bambino che deve ancora nascere, eliminare un malato o un anziano. Vite senza piacere o persone senza potere non hanno la stessa dignità o gli stessi diritti degli altri.
Detto in questo modo sembra scioccante, e pochi vi si identificherebbero immediatamente, ma è così che viviamo spesso, e ci avvaliamo di meccanismi per renderci invisibili e giustificarci per non renderci conto della realtà in cui siamo immersi.
Una risposta positiva
Lo scandalo morale e la colpevolizzazione delle ideologie e degli ideologi possono farci sentire meglio, ma non risolvono il problema. Come ci educhiamo a una cultura della vita e di rispetto dei diritti dell’altro?
Benedetto XVI, nel volo verso il Brasile, parlando dell’aborto, ha dato una prima risposta essenziale: bisogna educare alla bellezza della vita e alla speranza. La vita è bella anche nei suoi momenti di dolore e di sofferenza. La speranza può vincere le difficoltà, non essere un’illusione ingannevole, ma la forza che ci permette di costruire una vita migliore – per noi e per gli altri.
Come la vita è l’opposto della morte, l’accoglienza è l’opposto dello scarto. Sentiamo tutti la necessità di essere amati e accolti – è questa esperienza che ci fa avere coscienza della nostra dignità e ci fa avere speranza nel futuro. Una persona si pone a favore della vita quando scopre la forza dell’amore e dell’accoglienza, quando percepisce che i fallimenti, la sofferenza e il dolore non hanno bisogno di avere l’ultima parola sulla vita.
È una cosa incredibilmente semplice, ma non è sempre facile, tanto la cultura della morte e dello scarto è entrata nella nostra società, diventando sempre più egemonica. Molte volte davanti alle difficoltà sembriamo perdere la speranza, assumiamo atteggiamenti individualisti, ci scandalizziamo e ci lasciamo determinare da norme formali, perfino giuste, ma prive dello Spirito.
L’accoglienza non elimina la correzione, ma la precede. Prima accogliamo e poi correggiamo. La speranza e la solidarietà devono essere sempre complementari alla denuncia. La verità non sarà comunicata in modo adeguato senza l’esperienza della bellezza.
Spesso siamo carenti di amore, solidarietà, verità e bellezza, ma Dio non si chiude mai a chi Lo cerca. Vivere e comunicare questa positività cristiana è ancora il cammino migliore per affrontare la cultura della morte e costruire la cultura della vita e dell’accoglienza.
Fonte: Francisco Borba Ribeiro Neto – Aleteia