Emergenza senza dimora: quasi centomila censiti in Italia. Condizioni igieniche disumane e indegne di un Paese civile.
Senza ombra di dubbio alcuno, il fenomeno dei senza dimora è uno tra i più problematici e di complessa risoluzione. Dette difficoltà (ulteriormente acuite dal Covid, dall’aumento dell’inflazione e della recessione economica e, non ultimo dal conflitto tra Russia e Ucraina) sono determinate da un coacervo di concause che finiscono col mettere per strada migliaia di persone: perdita del lavoro, usura, problemi di salute mentale, dipendenze (alcool, sostanze psicotrope, ludopatia ecc.), allontanamento coatto dal nucleo familiare, sfratti esecutivi, lievitazione delle bollette delle utenze, residui di “punkabbestia”, fallimento dei progetti migratori e mancata inclusione nella comunità d’accoglienza.
Le persone senza fissa dimora e senzatetto iscritte nelle anagrafi comunali a fine 2021 ammontano – secondo l’Istat – a 96.197 unità e quasi il 38% di esse è di nazionalità straniera. La condizione di precarietà abitativa che caratterizza questa popolazione è più diffusa nella componente maschile che non in quella femminile. In questo piccolo esercito di disperati sono comprese le persone senzatetto, senza casa o senza fissa dimora, ovvero persone che, per lungo tempo, non hanno un luogo fisso di residenza (dimora abituale).
Il popolo dei senza dimora sul territorio partenopeo è cospicuo (sebbene inferiore a quello di Milano, Roma e Palermo) e dovrebbe aggirarsi intorno a una presenza stimata di circa 1.600 persone, che all’incirca per un terzo possono essere ospitate dalle strutture comunali (oggettivamente poche) e da quelle offerte dalla Chiesa e dal Terzo settore. Ovviamente, sono in molti a rifiutare il ricovero in strutture d’accoglienza, per preservare la propria libertà e non assoggettarsi a un sistema di regole imposte dalle medesime strutture. Questo atteggiamento, soprattutto nella stagione più fredda e piovosa, ha fatto crescere a dismisura gli insediamenti spontanei che, un po’ come funghi, spuntano dappertutto. Da non dimenticare poi che, nel 2020, sono deceduti, in Italia, ben 367 senza dimora.
La questione – come scritto in precedenza – è complessa e di non semplice soluzione: senza dimora, ma anzitutto persone, oltretutto “invisibili” solo per chi non vuol vedere. Se non si tiene conto di questo elemento, ogni politica sociale finisce per essere emergenza, la povertà un fastidio, ogni persona, anche una sola, un problema troppo grande per essere affrontato. Se però si riuscissero a creare le giuste sinergie, la città, ogni città, potrebbe essere aiutata ad uscire dalla paura dei poveri e questi ultimi a uscire dalla marginalità come destino.
Ci sono tanti esempi di best practice, le migliori esperienze sul campo, replicabili da operatori sociali attenti e da chi pensa che sia possibile umanizzare la vita delle città a partire dalle persone con più difficoltà.
Ovviamente, il fenomeno non concerne solo la mancanza dell’abitazione: abbiamo, in precedenza, parlato della rottura dei legami familiari. Possiamo ricollegare questo dato al concetto di “familismo forzato”: secondo quanto asserisce il sociologo David Benassi, in Italia il sistema di welfare e il mercato del lavoro funzionano in un rapporto di sussidiarietà con le strutture familiari, viste come fondamentali paracaduti sociali.
In mancanza di questo tipo di assistenza informale, quello che vediamo è una tendenza per le persone in difficoltà a cadere al di fuori dei normali canali di funzionamento della società, un processo chiamato désaffiliation dal sociologo francese Robert Castel. Mentre per gli italiani possiamo parlare di “spirale discendente”, la situazione cambia radicalmente per i senza dimora di origine straniera: sono più giovani, spesso da meno tempo in strada e intrattengono contatti più frequenti con le famiglie.
Le cause che li portano in questa condizione hanno più spesso a che vedere con la difficoltà nell’inserirsi nel sistema italiano, dato il complesso iter legislativo previsto dal nostro Paese per consentire la loro integrazione. La maggior parte dei migranti senza dimora si trova oggi in difficoltà a causa della mancanza di documenti quali il permesso di soggiorno, o per via delle barriere linguistiche e delle scarse reti sociali sul territorio che ostacolano il loro inserimento nel mondo del lavoro.
È molto raro che i senza dimora si avvicinino alle strutture dello Stato: questo è dovuto anche ad una profonda sfiducia nei confronti delle autorità, spesso viste come una forza ostile. È infatti comune che i senza dimora vengano trattati come un problema di decoro urbano, più che come un fallimento del nostro sistema di regolazione sociale. La questione dei senza dimora è estremamente complicata. Con dati dissonanti e scarsi, una demografica non avvezza alle interazioni con lo Stato e la difficoltà di creare un sistema che possa reintegrare queste persone, la tendenza è sempre quella di elaborare una risposta immediata e a carattere emergenziale, anziché elaborare piani a lungo termine. I progetti che finora appaiono più promettenti per dare una risposta strutturale al problema dei senza dimora risultano essere quelli di Housing First (lett. “l’abitazione prima di tutto”), che propone di evitare il lungo processo di reinserimento a cui adesso sono sottoposti i senza dimora, dando loro subito una sistemazione. In particolare, l’esempio europeo più promettente è quello della Finlandia, dove questo sistema è stato impiegato per la prima volta su larga scala oltre 10 anni fa su iniziativa del governo. Da allora il numero di senza dimora è diminuito di oltre il 35%, rendendo la Finlandia l’unico Paese dell’Unione europea ad aver visto una riduzione del fenomeno. Le risorse ci sono e sono contenute nel PNRR: speriamo che i nostri amministratori (spesso critici addirittura con il volontariato) non falliscano alla prova dei fatti.
Altro importante punto da cui partire sarebbe quello di censire i senza dimora per verificarne l’identità e avviare, laddove ovviamente possibile, percorsi personalizzati di reinserimento abitativo socio lavorativo. Molti di essi potrebbero trovarsi nella condizione di percepire pensione sociale oppure d’invalidità, reddito di cittadinanza: ma per renderli effettivamente partecipi di questi processi occorre anzitutto conoscerli e non abbandonarli per strada alla mercè di ogni sorta di vessazioni, fisiche e morali.
di Giancamillo Trani