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Riflessioni sulla liturgia

Sintesi della quarta predica del Card. Cantalamessa – prima parte

La liturgia – esprime p. Cantalamessa – è il punto di arrivo, ciò a cui tende l’evangelizzazione. Nella parabola evangelica, i servitori sono inviati per le strade e i crocicchi per invitare tutti al banchetto. La Chiesa è la sala del banchetto e l’Eucarestia “il pasto del Signore” (1Cor 11,20) in essa preparato.

Per accostarsi a Dio bisogna, anzitutto, “credere che egli esiste” (Eb 11,6). Prima ancora, però, di credere che egli esiste (che è già un essersi accostati), è necessario avere almeno il “sentore” della sua esistenza. Questo è ciò che chiamiamo il senso del sacro e che un autore famoso chiama “il numinoso”, qualificandolo come “mistero tremendo e affascinante”. Sant’Agostino ha sorprendentemente anticipato questa scoperta della moderna Fenomenologia religiosa. Rivolto a Dio, nelle Confessioni, dice: “Quando ti ho conosciuto per la prima volta…, ho tremato di amore e di spavento”. E altrove dice: “Rabbrividisco e ardo: rabbrividisco per la distanza, ardo per la somiglianza”.

Se venisse a mancare del tutto il senso del sacro, verrebbe a mancare il terreno stesso, o il clima, in cui sboccia l’atto di fede. Charles Péguy ha scritto che “la spaventosa penuria e indigenza del sacro è il marchio profondo del mondo moderno”. Se è caduto il senso del sacro, ne è rimasto, però, il rimpianto che qualcuno ha definito, laicamente, “nostalgia del Totalmente Altro”.

I giovani, più di tutti, avvertono questo bisogno di essere trasportati fuori dalla banalità del quotidiano, di evadere, e hanno inventato dei modi loro propri di soddisfare questo bisogno. È stato osservato da studiosi della psicologia di massa che i giovani che partecipavano un tempo a famosi concerti rock, come quelli dei Beatles, di Elvis Presley o il Woodstock Festival del 1969, erano trasportati fuori dal loro mondo quotidiano e proiettati in una dimensione che dava loro l’impressione di qualcosa di trascendente e di sacro. Non diversamente avviene per quelli che partecipano oggi ai mega-raduni di cantanti e complessi canori. Il fatto di essere in tanti e di vibrare all’unisono con una massa amplifica all’infinito la propria emozione. Si ha il sentimento di far parte di una realtà diversa, superiore, che dà luogo a una sorta di “devozione. Il termine “fan” (abbreviazione di fanatic, cioè fanatico) è il corrispettivo secolarizzato di “devoto”. La qualifica di “idoli” data ai loro beniamini ha una profonda corrispondenza con la realtà. Questi raduni di massa possono avere il loro valore artistico e veicolare talora messaggi nobili e positivi, come la pace e l’amore. Sono “liturgie”, nel senso originario e profano del termine, cioè spettacoli offerti al pubblico, per dovere, o per ottenerne il favore. Non hanno però nulla a che vedere con l’autentica esperienza del sacro. Nel titolo “Divina liturgia”, l’aggettivo divina è stato aggiunto proprio per distinguerla dalle liturgie umane. C’è una differenza qualitativa tra le due cose.

Attraverso quali mezzi la Chiesa può essere, per gli uomini d’oggi, il luogo privilegiato di una vera esperienza di Dio e del trascendente?

La prima occasione a cui si pensa, anche per la somiglianza esterna, sono i grandi raduni promossi dalle varie Chiese cristiane. Pensiamo, per esempio, alle giornate mondiali della gioventù, e agli innumerevoli eventi – congressi, convegni e convocazioni – a cui prendono parte decine (a volte centinaia) di migliaia di persone in tutto il mondo. Non si conta il numero di persone per le quali tali eventi sono stati l’occasione di una esperienza forte di Dio e l’inizio di un rapporto nuovo e personale con Cristo. Quello che fa la differenza tra questo tipo di incontri di massa e quelli descritti sopra è che qui il protagonista non è una personalità umana, ma Dio. Il senso del sacro che in essi si sperimenta è l’unico veramente genuino, e non un suo surrogato, perché è suscitato dal Santo dei santi, e non da un “idolo”. Questi sono eventi straordinari ai quali non tutti e non sempre possono partecipare. L’occasione per eccellenza e più comune, per un’esperienza del sacro nella Chiesa, è la liturgia. La liturgia cattolica si è trasformata, in poco tempo, da azione a forte impronta sacrale e sacerdotale, in azione più comunitaria e partecipata, dove tutto il popolo di Dio ha la sua parte, ognuno con il proprio ministero.

Il presente nella Chiesa non è mai rinnegamento del passato, ma suo arricchimento; oppure, come in questo caso, superamento del passato recente per recuperare quello più antico e originario. Nell’evoluzione della Chiesa intesa come popolo, avviene qualcosa di simile a ciò che avviene con la Chiesa intesa come edificio. Pensiamo ad alcune celebri basiliche e cattedrali: quante trasformazioni architettoniche nel corso dei secoli per rispondere ai bisogni e ai gusti di ogni epoca! Ma è sempre la stessa Chiesa, dedicata allo stesso santo. Se c’è una tendenza generale in atto in epoca moderna, è quella di riportare tali edifici – quando ciò è possibile e ne vale la pena – alla loro struttura e stile originari. La stessa tendenza è in atto per la Chiesa come popolo di Dio e in particolare per la sua liturgia. Il Concilio Vaticano II ne è stato un momento decisivo, ma non l’inizio assoluto. Esso ha raccolto i frutti di tanto lavoro precedente.

All’inizio della Chiesa e per i primi tre secoli, la liturgia è davvero una “liturgia”, cioè azione del popolo (laos, popolo, è tra le componenti etimologiche di leitourgia). Da san Giustino, dalla Traditio Apostolica di sant’Ippolito ed altre fonti del tempo, ricaviamo una visione della Messa certamente più vicina a quella riformata di oggi che a quella dei secoli che abbiamo alle spalle. Che cosa è avvenuto dopo di allora? La risposta è in una parola che non possiamo evitare: clericalizzazione! In nessun altro ambito essa ha agito più vistosamente che nella liturgia. Il culto cristiano, e in particolare il sacrificio eucaristico, si trasformò rapidamente, in Oriente e in Occidente, da azione del popolo in azione del clero. Per secoli e secoli, la parte centrale della Messa, il Canone, era pronunciato in latino dal sacerdote, a bassa voce, dietro una cortina o un muro (quasi un tempio nel tempio!), fuori della vista e dell’ascolto del popolo. Il celebrante alzava la voce solo alle parole finali del Canone: “Per omnia saecula saeculorum”, e il popolo rispondeva “Amen!” a ciò che non aveva sentito e tanto meno capito. L’unico contatto con l’Eucaristia, annunciato dal suono delle campane o del campanello, era il momento dell’elevazione dell’Ostia.

C’era un evidente ritorno a ciò che avveniva nel culto dell’Antico Testamento, quando il Sommo Sacerdote entrava nel Sancta sanctorum, con incensi e sangue delle vittime, e il popolo rimaneva fuori tremante, sopraffatto dal senso della maestà e inaccessibilità di Dio. Il senso del sacro è qui fortissimo, ma, dopo Cristo, è esso quello giusto e genuino? Nella Lettera agli Ebrei leggiamo: Voi infatti non vi siete avvicinati … a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole…Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: Ho paura e tremo (Es 19,16-18; Dt 9,19). Voi invece vi siete accostati… a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele (Ebr 12,18-24). Cristo è penetrato oltre il velo e non ha richiuso il varco dietro di sé (Ebr 10,20).

Il sacro ha cambiato il modo di manifestarsi: non più come mistero di maestà e potenza, ma come infinita capacità di farsi da parte, di nascondimento. Dopo la consacrazione, il celebrante dice o canta: “Mistero della fede!” Alcuni di noi più anziani ricorderanno che una volta l’esclamazione era inserita addirittura nel mezzo della formula di consacrazione del vino: “Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti -Mysterium fidei!- qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum”. Come se la Chiesa si fermasse, a metà del racconto, stupefatta di quello che stava dicendo! La riforma ha fatto bene, naturalmente, a spostare tale esclamazione alla fine della consacrazione, ma dovremmo non perdere il senso di stupore racchiuso in essa e soprattutto capire quale deve essere il motivo vero del nostro stupore. Esso deve essere dello stesso genere di quello che si legge nei carmi del Servo di Jahvé: “Così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.” (Is 52,15-53,1)

Stupore e meraviglia, sì: davanti all’umiliazione del Servo! Uno che aveva acutissimo questo sentimento era san Francesco d’Assisi: “L’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo, figlio del Dio vivo”. “O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio!”

Si tratta solo di non sciupare questa possibilità offerta dalla liturgia rinnovata con improvvisazioni arbitrarie e bizzarre, e mantenere la necessaria sobrietà e compostezza, anche quando la Messa viene celebrata in situazioni e ambienti particolari.

In tutte le preghiere eucaristiche passate e presenti, l’invito che segue immediatamente la consacrazione è sempre quello a ricordare: “Unde et memores”, “facendo dunque memoria”. È la risposta al comando di Gesù: “Fate questo in memoria di me!” Ma, di lui, che cosa dobbiamo soprattutto ricordare? “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore” (1 Cor 11,26). Riportiamoci al momento in cui Gesù pronunciò la parola “Fate questo in memoria di me!” Il nostro Redentore vede con chiarezza a che cosa sta andando incontro. Più volte ne ha parlato, ma come da lontano. Ora il momento è giunto; non c’è più neppure l’intervallo di tempo ad attenuare l’angoscia. Le parole: “Questo è il calice del mio sangue” non lasciano dubbi. È uno che sta andando incontro alla morte e a una morte orribile. E cosa avviene intorno a lui? Gli apostoli trovano il modo di discutere ancora una volta su chi è il più grande (Lc 22,24-27), come fratelli che litigano per spartirsi l’eredità intorno al letto di morte del proprio padre. Uno di loro, fra poche ore, lo venderà per 30 denari. In queste condizioni istituisce il sacramento con il quale si impegna a rimanere con i suoi fino alla fine del mondo. Dove trovare un mistero più “tremendo e affascinante” di questo? Il giorno che il Signore ci concedesse, per un attimo solo, di gettare uno sguardo fino al fondo di questo abisso di amore e di dolore, credo che non potremmo più vivere come prima. Questo spiega perché san Pio di Pietrelcina sembrava lottare nella Messa e non riuscire a portare a termine la consacrazione.

a cura di Angela Di Scala

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