Il vero obiettivo del viaggio in Italia: neutralizzare il Papa
L’equidistanza del Vaticano dai contendenti non è etica, ma affonda le radici nel credo della fratellanza universale. Bergoglio lasciato solo
L’irritazione della Santa Sede per il tono urgente e quasi infastidito con cui il presidente ucraino ha sbrigato la partita della mediazione proposta da papa Francesco è filtrata quasi immediatamente. Eppure, una cappa di silenzio è scesa sul modo quasi sgraziato con cui Zelensky ha invitato il soglio di Pietro a partecipare al piano di pace predisposto da Kiev, rinunciando a qualsivoglia ulteriore iniziativa tra le parti in conflitto. Ora che il Vaticano possa anche solo da lontano appoggiare trattative che prevedano, non solo la resa della Russia, ma anche costanti e crescenti invii di armi all’Ucraina da parte della Nato è del tutto escluso. Lo sanno bene i protagonisti del serrato colloquio di qualche giorno or sono ed è del tutto scontato.
L’equidistanza del Vaticano dai contendenti non è etica – tante volte papa Francesco ha parlato di una invasione ingiusta e di sacrifici immani provocati all’Ucraina – ma piuttosto affonda le radici nel credo professato dalla Chiesa universale e nella sua dottrina di fratellanza universale anche tra eserciti in armi e popoli in guerra. Sarebbe stato lecito attendersi che la diplomazia italiana, Palazzo Chigi e lo stesso Quirinale invitassero Zelensky a una qualche moderazione nei colloqui in Vaticano e a preservare, in tal modo, la possibilità di una mediazione degli emissari papali in un prossimo futuro. Il niet pronunciato dal presidente ucraino è stato, invece, netto con un disallineamento della politica estera italiana rispetto alle posizioni del Vaticano che non si registrava da tempo immemore. L’aver lasciato solo papa Francesco nell’iniziativa di pace e l’essersi schierati “senza se e senza ma” per l’illimitato appoggio alla causa della guerra di liberazione ucraina non sarà privo di ricadute in Italia e nei rapporti tra Stato e Chiesa.
Non basteranno le posizioni assunte dal governo italiano sulla famiglia, sulle coppie omosessuali, sulla denatalità a ricucire uno strappo che appare obiettivamente profondo, anche per il silenzio con cui lo sbrego è stato circondato dai media nazionali, quasi tutti schierati sul fronte bellicista e poco inclini a concedere al papato un ruolo distonico sul versante della pace. L’Italia non è in guerra, ma a tutta evidenza il linguaggio della politica, di molta parte della politica, ha assunto toni obiettivamente in contrasto con l’etica repubblicana e con il ripudio della guerra imposto dalla Costituzione del 1947. È la più incisiva controriforma che si sia mai attuata nella costituzione materiale del paese quella che segue l’invasione russa dell’Ucraina. Altre volte, in Afganistan, in Iraq e altrove, truppe italiane si sono trovate coinvolte in operazioni militari, ma la politica aveva sempre operato con moderazione. Nessuno ricorda parole infuocate contro Saddam o contro i talebani per sostenere i militari in azione.
Oggi la politica e tanti media si sono come smarriti nella retorica della guerra, nell’esaltazione dello scontro, nell’evocazione della immancabile vittoria sul nemico russo. Un linguaggio aspro, intollerante, istigatorio si è impadronito anche delle massime istituzioni del paese che, senza alcuna formale e univoca presa di posizione del Parlamento sul tema della guerra, mascherano il coinvolgimento italiano nel conflitto con l’asettico invio di aiuti militari al governo di Kiev. Quasi che quell’invio massiccio e incrementale di armi non sia esso stesso in contraddizione con il “ripudio della guerra” di matrice costituzionale che rendeva già problematico finanche il solo commercio delle armi da parte dell’industria militare italiana in favore di paesi in conflitto.
Il presidente Zelensky ha lasciato l’Italia portando a casa il risultato per lui più importante, ossia neutralizzare l’unica dichiarata iniziativa di pace in corso e assicurarsi il sostegno illimitato di un paese comunque importante nello scacchiere internazionale della guerra. Probabilmente tappare la bocca al Vaticano era più importante che rendere visita di cortesia all’alleato italiano, in modo da consegnare alla prospettiva di una vittoria contro Mosca le stimmate dell’unica soluzione possibile. È comprensibile che accada. Migliaia e migliaia di morti, immani distruzioni, esodi biblici di milioni di persone hanno un peso enorme nelle scelte che Kiev dovrà compiere. Anzi per l’unica strada che intende al momento perseguire, la sconfitta dell’esercito russo d’invasione. Non si tratta di misurare il realismo di una tale prospettiva che tutti i più autorevoli analisti escludono non foss’altro per lo spettro dell’arma tattica nucleare, ma di comprendere che le ragioni della pace sono altrettanto impellenti. Papa Francesco immaginava si potesse partire dallo scambio di prigionieri e dal ritorno a casa delle migliaia di bambini deportati in Russia dal Donbass. A Kiev non sarebbe dispiaciuto a patto che ciò fosse avvenuto al di fuori di qualsiasi piano di pace e senza alcun riconoscimento verso Putin. La forzatura di papa Francesco sull’aereo che lo riportava a Roma, con la dichiarazione circa l’esistenza di una mediazione vaticana tra Russia e Ucraina, ha scontentato Kiev che non può permettersi cedimenti in una fase cruciale della guerra e nella sua disperata ricerca di ulteriore sostegno militare. È comprensibile che accada.
Ma le istituzioni italiane avevano il dovere di operare a sostegno o, per lo meno, a copertura dell’iniziativa di papa Francesco, in nome di un’intesa in politica estera sempre salda tra i due Stati e in forza del ripudio della guerra. Ripudio che non tollera l’escamotage delle forniture militari, ma neppure quello del tifo bellicista e che pretende anche nel linguaggio istituzionale la negazione della guerra come strumento per la risoluzione di tutte le controversie tra popoli.
Fonte: Alberto Cisterna – L’Unità
Immagine: Vatican News/SIR