Ho avuto il piacere d’incontrare don Paolo Buono all’indomani della sua ordinazione, ed è nata un’intervista non preparata, ma per questo, forse, più sincera.
Grazie, don Paolo, di aver concesso questa intervista al Kaire. Raccontaci: come stai?
È difficile dirlo, perché quello che è accaduto è un mistero, e come tale è difficile da spiegare; alcuni sacerdoti mi hanno detto: “non lo capirai mai, anche se farai cinquant’anni di sacerdozio, continuerai non capire cosa è successo quel giorno.” Sto ancora in “luna di miele”: non capisco niente e sento di essere felice.
Come è nata la tua vocazione?
L’ho detto per la prima volta a 11 anni, e un ragazzino che dice “voglio diventare sacerdote” fa scalpore. Io non ho una vocazione nata in un momento preciso, io sono nato all’ombra della parrocchia, la mia vita vocazionale è stata un crescendo all’interno di una vita parrocchiale normale. A undici anni, poteva quindi risultare anche naturale che io potessi dire una cosa del genere. Poi il tutto è rimasto un po’ in sordina: gli anni delle medie, poi il liceo… c’era sempre il fatto che “Paolo non viene, sta in chiesa, quindi non fa tante altre cose”, e di fatto non ne ho fatte tante, ma senza rimorsi o rimpianti, non le ho fatte perché non le ritenevo giuste, non le ritenevo adatte a un cammino.
Alla fine del liceo classico, al momento d’iscrivermi all’’università, provai solamente il test d’ingresso a Ingegneria Navale, a Monte Sant’Angelo. Qualcuno mi chiese: “Se non entri a Ingegneria?” “Entro in Seminario, che tanto lì non ci sono i test d’ingresso!” Non è vero, ci sono i test d’ingresso, io non lo sapevo. Però da quel momento non era più una frase detta così, per scherzo o per attirare attenzione, e quindi mi è rimasta in mente, accompagnandomi nei primi tre mesi d’Ingegneria. A un certo punto ho sentito che dovevo fare chiarezza. Mi sono allora dato un termine, imponendomi di non pensarci fino a quel momento. Arrivato a Natale, alla fine delle vacanze, presi la decisione di lasciare Ingegneria, di interrompere gli studi e dedicarmi al cammino di discernimento.
Era il 2013 e a maggio arrivò a Ischia Mons. Lagnese che, il giorno stesso del suo insediamento, mi disse “Paolo, quando vuoi, vieni che parliamo”. Ci misi un po’ ad andare, ne parlai prima con don Agostino e infine a luglio manifestai questo mio desiderio a Padre Pietro che mi mandò a fare il corso vocazionale del SOG ad Assisi. A fine settembre entrai all’anno propedeutico a Pozzuoli – era il primo anno che c’era l’anno propedeutico interdiocesano nel seminario di Pozzuoli -; tutto ok, tutto bello; il 17 marzo 2014 io lasciai il seminario propedeutico, e non perché avessi capito che quella non era la mia strada, ma perché sentivo che non ero arrivato a quella profondità di conoscenza che mi serviva per inoltrarmi in un percorso più strutturato come quello del Seminario Maggiore. Bloccai allora per un po’ il cammino e mi scelsi un padre spirituale fuori della diocesi, un sacerdote che avevo conosciuto ai tempi dell’università e reincontrato in un pellegrinaggio in Terra Santa: si ricordava di me e gli chiesi di seguirmi spiritualmente in questo momento un po’ così.
Questo percorso è durato due anni e mezzo: tanto lavoro su di me, sulla mia interiorità, i sentimenti, le pulsioni, un lavoro ben strutturato. Alla fine lui mi invitò, se volevo, a tornare dal Vescovo e a chiedergli, se lui lo riteneva opportuno, di riprendere il cammino per il seminario. Mons. Lagnese mi mise in contatto con padre Franco Beneduce (all’epoca Rettore del Seminario N.d.R.), il quale mi propose: “Guarda, il Seminario è iniziato, il propedeutico lo hai già fatto, ti andrebbe di perdere l’anno a Quarto, al centro Regina della Pace con don Gennaro Pagano?”. Io presi male la cosa, forse per come mi era stata proposta e reagii rispondendo: “Se devo perdere l’anno, me lo perdo come dico io!”. Il Rettore cercò di farmi capire, ma io ormai la vedevo così. Quindi il 19 dicembre 2016 ho iniziato l’anno a Quarto piangendo: stavo lì da solo, gli altri ragazzi che stavano facendo l’esperienza ritornavano a casa per le vacanze di Natale – io le passai lì –… ma poi da Quarto me ne sono andato piangendo, perché, se ero arrivato lì sentendomi come abbandonato alla situazione, me ne venni via con la consapevolezza che assolutamente non era stato un anno perso, anzi, è l’anno più fruttuoso della mia vita, sia spirituale sia il resto. Veramente è stato una benedizione del cielo, quell’anno a Quarto. Sono ancora legatissimo alla figura di Gennaro Pagano, cui veramente devo tanto e sono legato all’esperienza in sé – non ai luoghi, non ai momenti – sono legato all’esperienza che il Signore mi ha fatto vivere.
Dopo di ciò ho iniziato il Seminario Maggiore, con tutti i suoi alti e i suoi bassi, le esperienze belle e brutte, i momenti dolorosi, i momenti di aridità spirituale, i momenti bellissimi, come lo è stata la missione Speranza e Carità con fratel Biagio Conte e padre Pino Vitrano: quella ha segnato veramente un momento fondamentale, perché lì, più che da qualsiasi altra parte, non ho visto vivere il vangelo, ma ho visto il vangelo che viveva. Sembra una frase a effetto, ma veramente, leggere negli occhi delle persone che stavano lì, leggere in quelle situazioni, non era vedere Cristo nel povero, era vedere il vangelo che era vivo, non che veniva vissuto: lì c’era il vangelo vivo.
Momenti di ripensamento?
Ce ne sono stati tantissimi, perché, un po’ gli scrupoli, un po’ i tanti momenti bui che ha vissuto la Diocesi hanno sempre messo in discussione quella che era la scelta; non che facessero incrinare le fondamenta, ma era un chiedersi: è veramente in queste dinamiche che vuoi entrare? È veramente questo che vuoi per la tua vita? La risposta era sempre quella, cioè: i momenti di difficoltà ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre, ma se alla base di tutto c’è un legame forte con Dio, con Gesù, allora, per citare un po’ il vangelo, è come aver costruito la casa sulla roccia, può succedere di tutto, si può crepare qualcosa, ma le fondamenta e la struttura rimarranno stabili. Io ho sempre cercato di vivere e di interpretare tutti i segni, i ripensamenti e i momenti di crisi in quest’ottica: sto riuscendo a viverli sempre unito a Gesù? Sì! Ok, vai avanti. C’è qualche cosa che ti fa stare più lontano da Gesù? Sì. Capiamo che cos’è per cercare di porvi rimedio.
Un bel percorso…
È un percorso che potrebbe essere riassunto con “Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni”. Probabilmente io non sto portando covoni di chissà quale grande semina, ma sicuramente le tante sofferenze e le tante lacrime versate in questo cammino sono servite ad arrivare a questo primo momento di felicità, a questa prima balla di fieno e di grano che ho raccolto nella gioia del giorno dell’ordinazione.
Bene! Ti vedo “solido”, e questo è un bell’inizio…
È una delle poche cose certe della mia vita: che fino a quando ero io che dovevo scegliere qualcosa, lasciavo e prendevo, prendevo e lasciavo, ma siccome in un cammino di vocazione sacerdotale non sono io che scelgo di diventare sacerdote, ma si risponde a una chiamata, è Lui che chiama, da parte mia c’è l’impegno ad aver detto “sì”, ma è come se non avessi scelto io: è un camminare insieme a Colui che mi ha chiamato.
Qual è stato il momento che hai sentito più “forte” nella messa di ordinazione?
A livello emotivo, sicuramente il momento della vestizione: lì è scoppiato il pianto a dirotto; ma anche il momento dell’imposizione delle mani, da parte del Vescovo e di tutti i sacerdoti, don Agostino in primis. Lì ho sperimentato qualcosa che non so spiegare, ho percepito una sensazione di gratitudine: di gratitudine a Dio per il momento che stavo vivendo, di gratitudine alla famiglia che mi ha portato, implicitamente o scientemente, a vivere quel momento, e alla famiglia sacerdotale nella quale stavo entrando. Ho voluto che quel momento fosse senza musica, proprio perché anche sulle rubriche del messale c’è scritto che è un momento da vivere in silenzio: è la preghiera della Chiesa e dei sacerdoti su colui che dovrà essere ordinato presbitero. Era il momento in cui veramente c’era una concentrazione, c’era una volontà di pregare e – anche se è sbagliato come modalità verbale – di “essere pregato”, di essere oggetto della preghiera.
I tuoi genitori?
Io ho visto poco, quel giorno, avevo la vista annebbiata, però li ho sentiti emozionati, li ho sentiti coinvolti, sia mia mamma, sia mio padre, sia i miei due fratelli.
È stata molto bella la presenza dei due Vescovi: Mons. Pascarella, che ti ha ordinato, e Mons. Villano, che il giorno prima era stato nominato Vescovo di Pozzuoli e di Ischia.
Mons. Villano è venuto più volte a Ischia, e con lui si è creato un bel rapporto, ed è stata simpatica la cosa che lui e io abbiamo iniziato il ministero a un giorno di distanza: lui a mezzogiorno del 20, io alle 21 del 21. E quando Mons. Pascarella ho detto “Prometti a me e ai miei successori…” io già stavo rivolto lì. Sarebbe stato simpatico che dicesse: “Prometti a me, a Mons. Villano e ai suoi successori…”
Progetti per il futuro?
Il mio progetto è quello di cercare di spendermi al meglio nella diocesi, nel luogo che più mi ha dato consolazione in questi anni, che è il confessionale. Io sono diventato sacerdote perché, avendo sperimentato la gratuità della Misericordia di Dio, ho piacere che gli altri possano sperimentare questa stessa gratuità.
Hai finito gli studi?
Ho finito il Bacellerato l’anno scorso – anche perché altrimenti non avrei potuto essere ordinato – e sto continuando gli studi di Teologia Spirituale a Posillipo, nella Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale; ho chiesto al Vescovo di poter continuare gli studi in questo ambito proprio perché lo vedevo come l’ambito più affine a quella che era la modalità in cui potermi meglio spendere in Diocesi, che è anche il mio desiderio.