Al risveglio avevamo ancora il torpore di chi è stato travolto da un tir di gommapiuma, con autoarticolato al seguito di densa panna montata. La strana e insolita sensazione di aver dormito a sufficienza, ma circondati da una morsa di morbidezza, certezza ingombrante, e altro in divenire, non immediatamente quantificabile, il cui effetto, polivalente, sia diretto che collaterale, è diluito nel tempo ed è a rilascio graduale.
Secondo il famoso programma, tabella di marcia infedele e fuorviante, al pari di un navigatore satellitare “pezzotto” (non autentico, non originale, falso), avremmo dovuto risvegliarci senza sveglia e partecipare con accondiscendente pigrizia alla colazione, poi alla catechesi e, volendo, alla confessione, nella basilica di Mafra, “Nostra Signora e di Sant’Antonio”, poi avremmo dovuto avere del tempo libero per le visite di gruppo e nel pomeriggio transfer per Lisbona per partecipare alla via crucis del Papa con i giovani nella “Colina do Encontro” – Parque Eduardo VII – , questa volta in anticipo per non correre il rischio di vederlo solo in monitor.
Il nostro viaggio, tipo armata Brancaleone, è iniziato quasi ciondolando, ma il nostro trastullarci è durato poco. Le campane della basilica, che già di suo è monumentale, spettacolare, ergendosi in tutta la sua imponenza nella sola facciata principale, al nostro passaggio hanno iniziato a intonare “o sole mio” e “mamma son tanto felice”. Ci siamo guardati intorno po’ smarriti, quasi increduli e sinceramente stupiti, per l’attenzione, per la cura, per il riconoscimento, per il dettaglio e l’organizzazione, insomma non deve essere stato facile intercettare proprio noi campani (certo nemmeno difficile dal chiasso che facciamo) ma la sincronicità con la quale dai due organi sono partite le note di brani a noi cari e alla nostra memoria carissimi; il riconoscimento, in un popolo straniero, delle nostre radici storiche, come attestano le canzoni d’epoca riprodotte, hanno avuto un che di suggestivo e commovente.
Noi ci siamo sistemati nel presbiterio, la cattedrale per quanto maestosa e grandissima, a tre navate, si è riempita subito. Catturata, nell’immediato, dalla Cura del Creato, la nostra attenzione ha rapidamente preso altre e diverse strade, con voli pindarici tra parole difficili ed etimologie non del tutto incardinate nei nostri programmi ministeriali. Forse chi sta facendo il classico ha più strumenti, chi studia altro, meno. Forse.
L’idea di creare dal nulla dei gruppi di lavoro, a dieci a dieci è buona, in teoria, nella pratica un po’ meno semplice da attuare. Come nella migliore tradizione campana, alla fine ce la caviamo e riusciamo anche a non rimediare brutte figure nel consegnare riflessioni e meditazioni, che, resti tra noi, abbiamo recuperato nella memoria di qualche incontro preparatorio a Ischia, non di più. Sulle piste sulle quali riflettere abbiamo parlato a iosa, a Ischia, poi, quella del parlare è già di per sé una pista sulla quale ci specializziamo a ogni incontro.
Stupore, resistenza, rivoluzione, sono i tre concetti chiave che l’omelia ci ha consegnati. Su questi ci potremmo anche far sedurre dalla tentazione di pensarci. Non fosse altro che il nostro Vescovo, sin dal primo giorno, ci riporta alla dimensione e alla necessità del “volto” nell’altro e ci lega i concetti rendendoceli più digeribili o potabili, con la possibilità di tornare a stupirci dell’umanità dell’altro incontrando e facendosi incontrare dal suo volto, resistendo alla bruttura dell’omologazione e dell’appiattimento che il mondo oggi impone, ribellandoci con la sola rivoluzione possibile: mediante l’amore. Mettendo già in preventivo che tutto questo può costare delusioni, ripercussioni nella vita personale, derisioni, isolamenti e ostracismi. Ma attenzione, c’è un filo che lega tutti e tre questi concetti che sembrano difficili e irraggiungibili, il filo della perseveranza, sull’esempio di San Giovanni Maria Vianney che oggi festeggiamo.
Per pura “coincidenza” oggi è San Giovanni Maria Vianney, patrono dei Sacerdoti, altrimenti conosciuto come il Santo Curato d’Ars. Che Dio benedica i sacerdoti, soprattutto i nostri, don Carlo e don Marco, che ci hanno condotti sin qui, malgrado noi e le nostre resistenze, nonostante i nostri limiti e le nostre fragilità, i nostri spigoli e le nostre riottosità.
Dopo un fugace pasto ci siamo diretti a “Cidade da alegria”, Città della gioia, l’oasi spirituale allestita nei Jardim Vasco de Gama, nel cuore del quartiere di Belèm a Lisbona per questa 37a GMG.
Nelle piccole casette predisposte nelle varie lingue, chi vuole tra noi si può confessare, compresi cinesi o portoricani: ognuno si riconcilia come può.
Proviamo a guadagnare un po’ di strada per avvicinarci il più possibile ai luoghi dove il Papa passerà, il fiume di giovani rende la cosa complicata ma è un fiume in piena, che continuamente si alimenta di colori, sorrisi, sguardi, volti e emozioni che anche se dovessimo naufragare e perderci, sappiamo di essere nel posto giusto e che il flusso, prima o poi ci condurrà da Lui.
Facciamo le acrobazie, tentando qualche scalata di collina, per guadagnare un’altezza, una prospettiva; qualcuno dei nostri si arrende e improvvisa una postazione sul prato, con telo, cuffiette e cellulare, come se non fosse così indispensabile vederlo il papa, come se anche stare nel suo raggio di azione, fosse sufficiente a godere della sua presenza, del suo spirito, come se, comunque vada, avessimo la certezza di beneficiarne anche a distanza. Forse è così, ma tentare non nuoce.
Qualcuno prova a guardare gli alberi e si chiede se poi sarebbe tanto complicato arrampicarvisi, noi andiamo avanti, gentilmente, qualche passo lo facciamo con meno misericordia, ma si guadagna terreno come si può.
Armati di radioline che sono connesse con l’audio del palco, fremiamo perché è nell’aria che da lì a poco ha inizio lo spettacolo più intenso, quello per cui siamo arrivati fin qui, cavalcando notti insonni e dolori di schiena, cibi discutibili e igiene approssimata.
Il Papa ci passa sotto il naso, davanti ci sono fiumi di persone e noi, non si sa bene come, riusciamo comunque a vederlo. Sarà la suggestione, sarà il delirio dell’eccitazione, ma a ognuno di noi è parso che il papa guardasse dritto negli occhi. Ci avremmo giurato che in quella macchina bianca, alle sue spalle, ci sarebbe stata l’ombra di qualcuno che per fattezze ed evanescenza ci ricorda il nostro amico “Portoghese”. Come avrà fatto a superare i controlli, avvicinarsi al Papa e addirittura piazzarsi a scrocco sulla papamobile, rimarrà uno dei misteri più insoluti della storia.
Zitti tutti, ora si fa sul serio.
La via Crucis, sintesi mirabile tra immagini, parole, esperienze di vita vissuta e riferimenti a noi. Noi? Sì, proprio a noi, gocce minuscole di un oceano che ora, qui, formano quel fiume che andrà a immettersi proprio in quell’oceano, che senza, non sarebbe lo stesso.
Gesù imita la sua Mamma, si alza e si mette in cammino. Questa è la prima scena, se non addirittura il preambolo. L’inizio è lapidario lo abbiamo detto e trovato scritto tante volte, ora abbiamo di fronte chi per primo ha imitato Maria, alzandosi dalla sua vita semplice, da falegname, normale sin lì, e mettendosi in cammino. Subito incontra (o si scontra) con l’opposizione, la mancanza di quel consenso che cerchiamo e dal quale ci facciamo condizionare. Pilato gli nega il futuro e Lui come noi, si trova nel bel mezzo di violenze, torture, brutture e, come se non bastasse, con un pesante fardello di legno che non rifiuta di portare, pensando intimamente che l’amore vince sempre, come il bene sul male.
Quante volte abbiamo pensato di noi quel che ora pensiamo di Lui, “beata ingenuità, beata incoscienza, stai fresco tu”. Questa storia si avvicina pericolosamente alla nostra attualità, aggiustiamo le cuffiette, che per il sudore perdono aderenza, beviamo un sorso d’acqua e andiamo avanti, vediamo come finisce, che già per come è cominciata iniziamo a rimpiangere pure il pavimento della palestra. Altro che prato.
“Sbamm”, Gesù cade, faccia a terra. E lo sapevamo che la visione era sconsigliata a noi, “adultescenti”, però avrebbero dovuto scriverlo a chiare lettere, sulle App che abbiamo scaricato, sui libretti che ci hanno consegnati nel Kit GMG, insomma; Gesù cade, si fa male, si fa davvero tanto male, e non c’è nessuno che chiami un’ambulanza, che gli si avvicini per tenergli la testa, per togliergli almeno quelle spine che gli trafiggono il cuoio capelluto e col caldo che fa e le poche scorte di acqua che abbiamo, nessuno gli versa un po’ di acqua da bere.
Cade, come noi quando sprofondiamo nel buco nero dei nostri vuoti implacabili, al centro di un mondo che credevamo reale e nessuno viene a salvarci e, nella improbabile ipotesi che qualcuno si affacci alla porta della nostra comoda cameretta, non lo facciamo entrare.
Lui cade e, in una sovrapposizione di immagini, a rialzarti sei tu. Lui cade e quando stende la mano scopri che è Lui che si rialza con te, e che a rovinare sanguinante e nel suolo impolverato, sei te.
Sarà il caldo, la sete, la polvere, la fiumana, in quel calvario sembra che Gesù non sia solo, a uno a uno, ciascuno di noi, vede sé stesso, alla ricerca di un Volto, quello di mamma, che con il suo “Sì” silente e angosciato, muovendo solo di poco il capo, sostiene il cammino dando l’ok al percorso, sostenendoci nelle difficoltà. Un volto che tra tanti riconosceresti anche a occhi chiusi, un volto, che tra tanti, è l’unico che vuoi vedere, in mezzo a tante maschere, di cui, francamente, sei stufo.
Se c’è Lei, posso farcela, come ce l’ha fatta Lui. E poi il Cireneo, l’amico che ti aiuta a portare la croce, il cui peso, che ti scarnifica la clavicola e ti piega la schiena, toglie quel paio di centimetri all’altezza che non torneranno mai più. Cirenei tutti, se non ci giriamo dall’altra parte per paura di macchiarci l’abito buono, le scarpe appena lucidate, o prendere qualche malattia contagiosa. Cireneo anche Lui, quando sappiamo che a portare questa croce, non siamo soli.
Sporchi, sanguinanti, maleodoranti e atterriti, incrociamo il volto di chi non ha paura di affacciarsi alle nostre zone d’ombra, di chi non ci trova raccapriccianti e ci apre il suo sguardo, accogliendo il nostro. Veronica non ne ebbe di paura, e usò il suo fazzoletto buono, quello bello, stirato con l’amido profumato, per asciugare il volto di Gesù, amato e amante, padre e figlio, fratello e amico, volto trasfigurato, che farebbe ribrezzo a chiunque. A qualche Veronica, no, grazie a Dio. In quel pannuccio resterà impressa l’immagine, con l’odore e il ricordo di chi era concentrato nel proprio sanguinamento e di chi guardava, tra la folla, con moderata pietà e pruriginosa curiosità. In un unico gesto, fino al momento cruciale, all’incontro, ai due volti che si incrociano, uno si china, per attrarre meglio o essere attratto, il gioco dei ruoli si perde e confonde. Noi per attrazione guardiamo al volto di Gesù, ma lo stesso Gesù è attratto da noi, da morire. Chi ha cercato e trovato chi?
Non sono rose e fiori, non è così semplice come un film della Walt Disney, ricadiamo, ci rialziamo, chiediamo “non fiori ma opere di bene”, non sappiamo che farcene delle consolazioni di circostanza, ricadiamo quasi a chiederci “ma quante volte ancora cadremo”? Gesù sembra dire “per quante volte cadrai, io sto già qui, sul pavimento, faccia a terra, e aspetto che tu decida di rimetterti in gioco per rialzarci insieme. Che vogliamo fare? Stare qui tutto il tempo a leccarci le ferite o a guardare le stelle, o ci rialziamo e vediamo quanti volti ancora ci sono da scoprire e riconoscere?” E ci sembra di vederlo quel Portoghese lì, che guarda il suo orologio e con l’indice ticchetta il quadrante e sembra dire “ci vuole molto ancora”?
Poi ci spogliano, ci levano quello strato di apparenza senza il quale sembra che non esistiamo. Ci tolgono i consensi, i like, i pollici in su e il Nostro amico pare essere sereno, anche senza follower, nella sua nuda, semplice, scandalosa autenticità. Così scopriamo che si può vivere anche senza l’ossigeno dei selfie e che staccare la spina che alimenta il cellulare, tutto sommato non è eutanasia.
E poi ci inchiodano, un chiodo dietro l’altro, con i giudizi, le menzogne, le cattiverie e gli altri che ci deridono, mormorano, ci prendono in giro, mentre scendiamo dal carro dei vincitori e saliamo su quello dei perdenti. La gente che applaude, che grida, che incita, che osanna e denigra…in questa collina fa davvero caldo, una giornata di agosto memorabilmente afosa, la gente, la folla, la stanchezza, i dolori, ma chi c’è appeso a quella croce? Uno solo, tutti quelli che incontriamo, noi, io. Chi c’è su quella croce?
“Tutto è compiuto”. Su quella stramaledettissima croce che ora, frustrati e arrabbiati guardiamo di sbieco perché la sola vista fa male, perché non vogliamo guardare in faccia quel che sembra un fallimento frutto di credulità, resta tutto il non detto, il non fatto, le lacrime ricacciate all’indietro e il bene sprecato. Ma che peccato!
La nostra umanità e il nostro essere divinamente umani si incontrano e si scontrano fino all’ultimo respiro su quella croce. Da un lato, la divinità che in Dio prende il nome di santità, dall’altro, la divinità nell’essere umano, Uomo, che prende il nome di Umanità. Croce che al termine della battaglia epocale, dopo tre giorni, diventerà, per noi che l’avremo attraversata, elaborata e metabolizzata, Benedetta.
Sulle ginocchia della mamma, quella Mamma, la parola non detta trova pace nel silenzio e nel ristoro dell’Amore, in colei che “meditava da sempre tutte queste cose e le serbava nel cuore”.
La menzogna del sepolcro, della pietra che rotola e sembra sugellare la parola fine a questa che sembra una favola che a lieto fine non è, resta tale per chi aspetta solo un alibi per scrollarsi di dosso, oltre la polvere, la responsabilità di riprendere in mano la propria vita e continuare a camminare con una marcia in più. Da qui in poi, chi vuol restare concentrato nelle sue false credenze, fatte di apparenza, superficialità, etichette, ha la libertà di farlo, il nostro amico “Portoghese” si è esibito in una magistrale replica di uno spettacolo che si vede tutti i giorni, solo che noi, spettatori distratti e annoiati, non abbiamo mai compreso realmente che su quel palco, su quelle scene, ognuno ha la sua parte e ognuno ha il suo perché.
Da qui in poi, quella pietra pesantissima diventa feritoia di nuova vita, ma senza impegno, senza imposizioni, né costrizioni. Volendo, possiamo anche rimanere qui, su questa collina, nei nostri stati d’animo – sepolcri chiusi e maleodoranti di muffa – per sempre.
Un gruppo decide di rimettersi in cammino, siamo così storditi e non dal solo caldo, che al momento la direzione è un Mc Donald, un sacco a pelo e il mondo dei sogni. Domani si vedrà. L’importante è aver deciso di non restare chiusi lì dentro che poi, sembra di aver capito, non c’è nemmeno l’aria condizionata.
Il Portoghese c’è. Anche questa volta non consegnerà il ticket GMG, non occuperà il posto nel pullman e non sgomiterà per non fare la fila. Ma scommettiamo che sarà lì ad aspettarci accanto al nostro sacco a pelo?