La resistenza, la cedevolezza, la resa dei conti: i protagonisti si arrendono al vero “Protagonista”.
L’ultimo giorno inizia dal ritorno, che, come in un fermo immagine, inchioda il momento di due dimensioni che si incontrano. La nostra, protetta, ovattata, di grazia e comunione, di condivisioni intime e fragilità esternate ed accudite. E l’altra, quella della banchina del porto di Ischia, che dal traghetto intravediamo, che da un lato vorremmo raggiungere presto per la mamma, la pappa, la ninna, la casa, la doccia, e dall’altro vorremmo non toccare così velocemente, magari un po’ più en ralenti, giusto il tempo di ricordarci la strategia di come si affronta il mondo reale, fatto di cose razionali, materiali che ci aspettano per fare i conti e con le quali, già a partire da domani mattina, dovremo farceli questi conti.
Un ultimo giorno, prima di tornare al mondo reale, il cui racconto inizia dalla fine, per poter interiorizzare e riuscire ad esternarlo in qualche modo il “carillon” di sensazioni, colori, sapori e intensità vissute a ogni giro di corda, a ogni nuovo giro di giostra.
All’una passata eravamo ancora tutti lì, sulla banchina, per l’ultimo saluto all’amico, il penultimo all’amico del conoscente, il terzultimo allo sconosciuto e nella morsa della nostalgia ci siamo ritrovati pure ad abbracciare una coppia di turisti di Brescia, in vacanza sull’isola, e un gruppo di anziani che venivano a Ischia per le cure termali. E mica ce ne siamo accorti che non stavano con noi sul pullman per Barcellona o a Mafra o nel “Campo da Graça” …avevano dei volti così familiari, così squisitamente accoglienti che abbiamo salutato loro e evitato di abbracciare il Comandante, che abbiamo notato non essere del gruppo solo perché stava ancora in divisa.
Nessuno voleva andar via, una parola ancora, un abbraccio ancora, uno sguardo ancora. Lo rifacciamo, prometti, ci ritroviamo, giura, ci rivediamo, va bene? Con l’ansia struggente di non perderci di vista, non ci siamo nemmeno resi conto, o non ancora, che da oggi in poi sarà davvero difficile non riconoscere nell’altro Quel Volto, Quello Sguardo, Quell’Angelo Custode e dovremmo metterci veramente di impegno, dopo tutti questi giorni, a non essere Custodi dell’Altro, a non essere attrattori del Volto, di qualunque volto incrocerà le nostre strade.
E’ stato un giorno di navigazione, la linea andava e scompariva e solo tra Porto Torres e Civitavecchia siamo riusciti a tranquillizzare a casa, ma poi, questi aggeggi che nel tempo, si sono ritrovati ad essere il nostro naturale prolungamento, che hanno un posto riservato nella tasca principale, che anche il galateo mette tra la forchettina del dolce ed il bicchiere per il vino, sono stati riposti a discapito delle immagini ricordo, dei selfie, dei “be real”. Rispetto al primo giorno che ne facevamo uno scudo o un ancora di salvezza, ora erano diventati pesanti, di intralcio all’imperdibile che accadeva.
Riposti negli zaini e pure in silenzioso, con naturale e solenne consapevolezza, con determinata volontà a non lasciarsi distrarre per non perdersi nemmeno un goccio di quel succo concentrato che stavamo per vivere nel salone dedicato al cinema o alla discoteca, e che abbiamo scelto di utilizzare per le condivisioni, prima allargate con Benevento e successivamente riservate solo a noi, della diocesi di Ischia.
Il vento che muoveva un po’ la nave, assecondava lo sciabordio delle riflessioni fluttuanti che oscillavano tra un “chissene” e un “proviamoci, dai”.
Qualche risposta l’avevamo conquistata e custodita tra i souvenir e i panni spiegazzati e stipati alla meno peggio nei trolley. Al momento di incontraci con le nostre umanità e quelle dei nostri compagni di viaggio, ci siamo resi conto che durante il percorso “il Portoghese” ci aveva cambiato tutte le domande.
Non c’era più il “che ci faccio qui” ma “da dove torno, cosa porto e cosa farò adesso di tutto quello che mi è stato consegnato”?
Oggi era giornata di decompressione da tutte le intensità, forti e violente, dolci e stringenti, varie e cangianti, giornata di corse, di code saltate e pipì non fatte per non perdere l’ultima corsa, l’ultimo traghetto, l’ultima chiamata per l’imbarco.
E la penultima possibilità. Che non è mai l’ultima e mai lo sarà.
In totale assenza di sovrastrutture, polverizzate lungo il percorso, nella reciprocità nel rimanere l’uno accanto all’altro, il mantra è stato e resta “ritornare all’essenziale”.
Le condivisioni diventano risonanze, tutti hanno qualcosa che fa eco con l’altro, ci mettiamo a cerchio e diventiamo sponde con al centro uno spazio che vuoto non è e che diventa cassa armonica all’interno della quale ogni corda che vibra, risuona nell’altro.
Torna l’immagine del profeta, dono dell’ultima omelia sulla nave, dove il ritornare da profeti non richiede grandi manovre mistiche né capacità trascendentali di profetizzare alcunché. La profezia richiesta è più semplice di quanto il termine possa illudere: si tratta di ascoltare, di custodire e alimentare il dono dell’ascolto, di noi, degli altri, della realtà.
Tra i punti cardine delle condivisioni ha trovato centralità che tutti potranno inciampare e cadere, nessuno sarà esente, l’importante, infatti non sarà non cadere mai, ma rialzarsi sempre. Rimettersi in gioco, riprendere il cammino, specie quando sei senza allenamento e avresti tutte le buone ragioni per rimanere seduto dove sei. In questa GMG lo abbiamo imparato sulla nostra pelle: non è stata proprio una passeggiata, ma la forza della comunità, il sostegno, la connessione con gli altri e il sentirci parte integrante di un disegno più esteso ed estendibile ci ha fatto comprendere che le apparenti barriere della comunicazione tra lingue diverse, tra generazioni diverse, tra ruoli diversi sono superate (e non solo col traduttore di google) con la riscoperta, di cui abbiamo fatto esperienza concreta, di un linguaggio universale, che è quello dell’amore gratuito. Gratis, come l’amore di Dio che si è visto a partire da chi ci ha ospitato, accudito ed abbracciato con le lacrime agli occhi, quando ce ne siamo andati per arrivare a quello del compagno di viaggio, che magari non conoscevamo e con il quale feeling particolare non ne avevamo.
Abbiamo portato zaini pieni di insicurezze, fragilità, paure, e traumi importanti. Qualcuno è partito con la ferita di un lutto troppo grande per i suoi pochi anni ma il più piccolo tra noi si è fatto gigante e nella condivisione ci ha ammutoliti tutti, sacerdoti compresi.
“Gesù sta entrando nella mia ferita”.
Che non è l’illusione dell’ebbrezza vissuta, l’adrenalina che ti fa sentire supereroe e che tipo Rocky Balboa “non fa male, non fa male, non fa male”.
No, è la consapevolezza di chi sa che il dolore è grande ma che, se dalla ferita entra quel potente antibatterico che è Gesù, quella ferita diventa feritoia. Per noi e per gli altri.
I punti interrogativi che lastricano il cammino, si sono raddrizzati nella schiena curva dei pesi che abbiamo lasciato che Qualcun altro portasse per noi e sono diventati punti esclamativi. Di asserzione, di decisione, di presa di coscienza.
Alla fine questa GMG2023 è stata un’occasione apparentemente fortuita dove il Signore, mediante il “luminol” dello Spirito Santo, rende visibile quel filo rosso che si svela a chi un senso lo cerca davvero.
Anche il gioco dell’Angelo Custode, quello iniziato il primo giorno con dei nomi da pescare a caso e per i quali pregare e custodirli con discrezione senza essere “scoperti” è stata solo una scusa che “il Portoghese” ha utilizzato per farci arrivare tutti e tutti insieme alla stessa conclusione. Siamo tutti Angeli Custodi per chiunque incontriamo sul percorso. Anche a nostra e sua insaputa. Alla fine abbiamo gareggiato nell’amarci e custodirci a vicenda e quando ci è stato chiesto (avendo solo 2 possibilità) chi pensavamo fosse il nostro Angelo Custode, tutti abbiamo sbagliato il nome. O forse no.
La speranza, l’auspicio, il desiderio forte è di non dimenticare, distratti dalla routine, quello straordinario vissuto e interiorizzato che ciascuno di noi è chiamato a custodire per condividerlo con chi da oggi, potremo guardare dall’alto in basso, solo per tendergli la mano ed aiutarlo a rialzarsi.
Con il niente che avremo, fossero pure cinque soli pani e due pesciolini. Alla moltiplicazione ci penserà Gesù. Porto sicuro, come quello che ci aspetta all’imboccatura di Ischia, al ritorno a casa, alla fine di un viaggio che sta solo per iniziare.
E alla fine del viaggio siamo scesi dal traghetto, tutti insieme, aspettando sul portellone e prima di mettere il piede sulla banchina, che anche l’ultimo di noi, quello che tarda sempre, coi bagagli e tutto il carico che si è portato appresso, si aggiungesse al gruppo.
L’ultimo giorno diventa il primo, inizia dal ritorno e termina con la ripartenza. Come in un fermo immagine cristallizza il momento dei due mondi si incontrano su questa banchina, dalla quale siamo partiti e dalla quale ripartiremo. Due realtà, quella del passato e quella del futuro, che nel presente si abbracciano e fanno pace. Quella pace che non viene dall’uomo, la Pax Christi.
Buona la prima, perché l’ultima non sia altro che la penultima e perché “il Portoghese” è sempre in agguato.