Padre, da 12 anni sei Custode di Terra Santa. Cosa significa per te essere Custode, ma soprattutto vivere nella terra del Santo?
“È una grande responsabilità: significa essere lì a testimoniare, in una realtà così complessa, chi è il Santo. Non basta dire io appartengo al Santo: per testimoniarlo la pazienza, la misericordia, il perdono, valori così difficili da far passare, sono determinanti. Non basta dire noi custodiamo il Calvario, bisogna anche testimoniare ciò che il Calvario rappresenta: il perdono, l’amore, la consegna di sé.”
In questi anni hai vissuto fianco a fianco con i fratelli cristiani di altre confessioni (penso agli ortodossi): quali passi, anche piccoli, sono stati fatti verso l’unità dei cristiani?
“È cambiato molto: sono Custode da 12 anni, ma presente in Terra Santa da 25 anni. Ho visto un cambiamento costante, nonostante parentesi dolorose di difficoltà, lotte e tensioni profonde. Bisogna tener presente che il Santo Sepolcro non è solo una basilica, è un “condominio”: le discussioni, le relazioni tra noi non sono di carattere teologico ma “condominiale”. Bisogna anche considerare le differenze culturali enormi e le storie differenti che ci sono tra noi, però tutto sommato riusciamo a vivere insieme. In questi ultimi anni sono stati due i momenti fondamentali: il primo, 50 anni fa, l’incontro Paolo VI – Atenagora; il secondo, l’anno scorso, l’incontro Papa Francesco – Patriarca Bartolomeo. Quello di 50 anni fa fu un incontro privato, con le telecamere sì, ma nella residenza del Patriarca sul monte degli Ulivi. L’anno scorso è stato al Santo Sepolcro, nel cuore della Gerusalemme cristiana – che è anche il luogo delle nostre divisioni. E non era un incontro diplomatico, era una liturgia, preparata insieme dalle due chiese: per la prima volta dal 1054 il Patriarca Occidentale e il Patriarca Orientale pregavano insieme al Santo Sepolcro. Questo ci dice come concretamente siano cambiate le cose e che bel cammino abbiano fatto le Chiese. Ancora molto resta da fare, però quando c’è una tensione tra noi ci vergogniamo, mentre prima ne eravamo fieri.”
Ci hai raccontato delle partite giocate tra i nostri seminaristi e i seminaristi ortodossi…
“Bisogna preparare la generazione futura. Tra i seminaristi, nostri e loro, ci saranno sacrestani, guardiani, vescovi e patriarchi, o custodi. Se questi giocano a pallone insieme, quando avranno una responsabilità le loro relazioni saranno umanamente molto più semplici che non se hanno a che fare con uno sconosciuto.”
Tu hai vissuto l’esperienza della visita di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Francesco. Cosa sono stati questi viaggi per te, per voi Francescani lì?
“Giovanni Paolo II fu il primo ad abbattere definitivamente il muro, soprattutto tra noi e l’Ebraismo, con le visite al muro del pianto, alla Moschea, all’Yad Vashem (memoriale dell’Olocausto). Di Benedetto XVI ricordo i discorsi, che rivelano una grandissima profondità e chiarezza e restano una pagina esemplare di quel che dev’essere la vita del cristiano in Terra Santa. E poi la messa a Gerusalemme nella Valle del Cedro: “Pietro” che celebra nel luogo dove tradizionalmente (per ebrei e musulmani) ci sarà il Giudizio Finale, tra i Getsemani e la porta dorata del tempio. Di Papa Francesco è stato determinante per noi l’incontro al Santo Sepolcro.”
Molti ricorderanno quando, durante l’Intifada, nella basilica della Natività a Betlemme hai custodito tanti fratelli palestinesi.
“Restare lì aveva un valore molto simbolico: significava che noi non abbandoniamo. Se per paura ce ne fossimo andati, avremmo passato alla comunità cristiana un messaggio di disimpegno, invece era importante dire che noi siamo qui per custodire una memoria viva a nome della comunità. Quindi era necessario restare…”
Non hai paura?
“Quando sei dentro, non ci pensi. Poi dici “era da pazzi, bisognava fare attenzione”. Ma in quei momenti pensi agli impegni, alle responsabilità, a quel che devi fare, che è anche il modo per esorcizzare.”
Qual è il vostro ruolo in questo momento insieme alle altre due grandi religioni monoteiste, Ebraismo e Islam?
“Le grandi religioni monoteiste sono ora sul banco degli imputati, accusate di essere responsabili, o comunque canali, di gran parte delle tensioni che ci sono in Medio Oriente – la Terra Santa ha dinamiche un po’ diverse rispetto a Siria e Iraq. È nostra responsabilità agire diversamente e anche educare, dobbiamo dialogare e interloquire, essere esigenti su questo: non si può mai, in nessun modo, giustificare la violenza.”
Mi ha colpito, in quei paesi, che le scuole tenute da voi francescani siano frequentate per più del 50% da musulmani.
“In generale le istituzioni cristiane sono l’unico luogo concreto dove cristiani e musulmani s’incontrano. Il dialogo nasce dalle realtà della vita: vivendo insieme, lavorando insieme, devi anche dialogare. Nasce ed è sempre legato alla vita in comune, non è mai su temi astratti: ed è l’unica cosa che funziona. E’ vero che con le scuole arriviamo al massimo al 5% della popolazione, ma bisogna tener presente che noi siamo solo l’1%.
Che cosa ti porterai nella bisaccia quando finirai questi 25 anni in Terra Santa?
“Innanzitutto la Bibbia, studiata, letta e riletta lì, in quei luoghi. Ogni pagina mi ricorda un luogo dove sono stato, dove ho avuto un incontro. Tanti volti, tante persone, tante comunità locali, e migliaia di pellegrini: una Chiesa che, passando di lì, ti fa vedere quanto è bella e vitale. E poi in questi anni ho imparato che chi ha una responsabilità non deve avere la presunzione di risolvere tutti i problemi, ma imparare a starci dentro, e insegnarlo agli altri.”
* Direttore ufficio comunicazioni sociali diocesi di Ischia
di Don Carlo Candido
Foto di Andrea Di Massa