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In dialogo con i fratelli

L’uso del termine “fratelli maggiori” può essere interpretato come un’espressione di rispetto nei confronti degli ebrei, riconoscendo il loro ruolo centrale nella storia religiosa e nella tradizione biblica.

La questione della considerazione degli ebrei come “fratelli maggiori” da parte della Chiesa Cattolica è un tema dibattuto e complesso. È importante notare che le posizioni ufficiali della Chiesa Cattolica nei confronti degli ebrei sono cambiate significativamente nel corso dei secoli. Sino al Concilio Vaticano II nel 1965, la comunità cristiana aveva una visione spesso negativa degli ebrei, basata su insegnamenti errati di stereotipi e pregiudizi. Gli ebrei erano spesso considerati responsabili della morte di Gesù Cristo e venivano vittimizzati e perseguitati. Tali concezioni sono giunte fino alla Seconda guerra mondiale.

La Chiesa cattolica ha una posizione ufficiale sul giudaismo e sugli ebrei che è stata sviluppata nel corso dei secoli. In generale, la Chiesa insegna che gli ebrei sono il popolo prescelto da Dio e che Dio ha un patto con loro che non è stato revocato. Durante il Concilio Vaticano II (1962-1965), la Chiesa ha adottato una posizione molto chiara sull’antisemitismo, affermando che qualsiasi forma di antisemitismo è incompatibile con la fede cristiana. Il documento Nostra Aetate, promulgato durante il Concilio, afferma che gli ebrei non possono essere chiamati collettivamente responsabili della morte di Gesù e sottolinea l’importanza del dialogo e del rispetto reciproco tra le due religioni.

Giovanni Paolo II, durante il suo pontificato, si era impegnato con molti sforzi per migliorare le relazioni tra ebrei e cattolici. Ha visitato la Sinagoga di Roma, ha riconosciuto l’importanza di Israele come Patria dello Stato ebraico, e ha chiesto perdono per l’antisemitismo storico perpetuato dai cattolici. È importante sottolineare che, come in tutte le religioni, le opinioni individuali dei cattolici possono variare. Tuttavia, la posizione ufficiale della Chiesa cattolica è di rispetto e dialogo reciproco con gli ebrei. L’uso del termine “fratelli maggiori” può essere interpretato come un’espressione di rispetto nei confronti degli ebrei, riconoscendo il loro ruolo centrale nella storia religiosa e nella tradizione biblica. Tuttavia, alcune organizzazioni ebraiche e studiosi hanno criticato questa espressione, sostenendo che potrebbe essere interpretata come un modo per mantenere una posizione di superiorità.

Alcuni ritengono che l’interazione tra il cristianesimo e l’ebraismo debba essere basata sulla reciprocità e sulla parità di dignità. Tuttavia, ricorda Paolo VI: “occorre affermare con forza che la religione ebraica non ci è estrinseca, ma in un certo qual modo, è intrinseca alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori”.

Agli ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò che è stato fatto nella passione di Gesù. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno secondo le proprie opere, gli ebrei come i cristiani. Non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli ebrei sono “reprobi o maledetti”, come se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture, dell’Antico come del Nuovo Testamento. Su queste convinzioni conciliari poggiano i rapporti tra la Chiesa e la comunità ebraica.

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